Salute 8 Febbraio 2021 10:11

Vaccini Covid: intervista alla virologa Mazzella su risposte anticorpali, memoria immunitaria e obiettivi futuri

Abbiamo intervistato la virologa Anna Maria Mazzella su alcune delle domande più frequenti del periodo: come funziona con i non-responder al vaccino? Si può risultare positivi al tampone per via del vaccino? Una sola dose è sufficiente?

Vaccini Covid: intervista alla virologa Mazzella su risposte anticorpali, memoria immunitaria e obiettivi futuri

Siamo ormai in chiusura della fase 1 della campagna vaccinale anti-Covid, in attesa di valutarne gli effetti sul lungo termine, si fanno strada dubbi e domande poste dall’esperienza sul campo. Come si spiegano, ad esempio, il cluster di medici positivi a Palermo dopo la prima dose di vaccino, o i casi di soggetti con anticorpi alti già dopo una sola somministrazione, e ancora casi di risposta anticorpale assente nonostante le due dosi. A queste, e ad altre domande, abbiamo cercato di dare una risposta insieme alla dottoressa Anna Maria Mazzella, ex direttore del laboratorio di Virologia dell’Ospedale Ascalesi di Napoli.

Il Cluster di medici positivi all’Ospedale di Palermo post prima dose. Possibile interferenza test antigenico su tampone e anticorpi?

«È assolutamente impossibile che il test antigenico su tampone possa aver testato gli anticorpi eventualmente sviluppati dopo la prima dose di vaccino anti-Covid – afferma la biologa -. Per un motivo molto semplice: il test antigenico rileva l’antigene virale nel secreto naso-faringeo del soggetto, non rileva anticorpi. Gli anticorpi, inoltre, che vengono dosati nei test in commercio si trovano nel sangue e vengono ricercati su un campione ematico. È plausibile invece che i questi soggetti si fossero infettati prima di ricevere il vaccino, oppure subito dopo».

È pensabile ottenere un’immunizzazione sufficiente solo con una dose?

«Ogni soggetto – spiega la dottoressa Mazzella – ha una sua personale risposta immunitaria. La quantità di anticorpi che un individuo produce quando viene a contatto con l’antigene, sia esso derivato da infezione o da vaccino, è soggettiva. Nello studio condotto da Pfizer, una protezione anticorpale era rilevata nel 52% dei casi già una settimana dopo la prima dose. Percentuale che saliva all’80% dopo 20 giorni dalla prima dose, per poi arrivare al 95% una settimana dopo la seconda dose. C’è ovviamente una anche una bassissima percentuale di soggetti che anche dopo venti giorni dalla prima dose hanno un titolo anticorpale basso o addirittura negativo, e che anche dopo la seconda dose risultano negativi agli anticorpi. Ricordiamo – precisa – che non effettuare la seconda dose espone a un rischio non solo il soggetto, ma anche gli altri, perché un individuo non completamente immunizzato può contrarre l’infezione in maniera asintomatica ed essere contagioso. Ritardare la somministrazione delle seconde dosi per garantire una più ampia somministrazione delle prime (politica adottata nel Regno Unito) potrebbe allontanare il raggiungimento dell’obiettivo: l’immunità di gregge. Favorendo, per altro, lo sviluppo e la diffusione delle temutissime varianti».

Una speranza per i soggetti “non responder” alla vaccinazione, ovvero che hanno una risposta anticorpale bassa. L’esperienza può insegnare?

«Anche durante la campagna vaccinale contro l’epatite B effettuata sugli operatori sanitari ci sono stati casi di soggetti non-responder, cioè che sviluppavano titoli molto bassi di anticorpi a seguito del vaccino – osserva Mazzella -. Si è però poi visto, col tempo, che anche in questi soggetti permaneva una memoria immunitaria che li proteggeva dal contrarre la malattia. Potrebbe accadere lo stesso anche con i vaccini anti-Covid, in quel 5% di soggetti non-responder? Non possiamo saperlo – dice – ci troviamo davanti a un virus con caratteristiche completamente diverse e siamo all’inizio della campagna. I dati in nostro possesso non ci consentono di sbilanciarci. Anche perché bisogna ancora fare chiarezza sui soggetti che hanno una reinfezione dopo aver sviluppato la malattia e sul ruolo protettivo degli anticorpi anti Covid-19».

L’obiettivo da raggiungere: l’azzeramento dei tamponi positivi o la riduzione della sintomatologia?

«La partita non è solo contro il virus ma contro il tempo, e si gioca su un fronte globale – prosegue la biologa -.  Gli sforzi profusi nella campagna vaccinale dovranno essere convergenti per riuscire a immunizzare nel più breve tempo possibile l’intera popolazione mondiale. Quello a cui dobbiamo tendere, come risultato ragionevolmente perseguibile, è la riduzione della circolazione del virus conseguente a un livello di immunità raggiunto. Paradossalmente – conclude –  il fatto che questo virus non abbia una letalità altissima fa sì che possa circolare con molta più facilità. Perché l’ospite (il soggetto) che resta asintomatico o paucisintomatico può trasmettere comunque l’infezione».

 

 

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