Salute 10 Giugno 2022 16:13

Disturbi alimentari, cosa dire (e cosa no) ad una persona anoressica

Come approcciarsi chi soffre di disturbi alimentari? Ne abbiamo parlato con Elisa Valteroni, specialista in psicoterapia breve strategica

Come approcciarsi ad una persona che soffre di disturbi alimentari? Se bastasse dirle «devi mangiare» oppure «finisci il piatto» il problema dell’anoressia non esisterebbe. E infatti non funziona così. I disturbi alimentari sono sintomo di un problema più grande, più profondo, che richiede un aiuto specialistico. Ma chi fa parte della vita di quella persona può fare qualcosa per approcciarsi a lei nella maniera giusta, in modo da aiutarla o, perlomeno, non aggravare inconsapevolmente il problema.

Un approccio difficile

«La difficoltà maggiore nell’approccio con queste persone – spiega Elisa Valteroni, specialista in psicoterapia breve strategica – ce l’hanno i genitori e coloro che fanno parte del loro “sistema”. È più facile che non commettano errori persone che non fanno parte di questo sistema piuttosto che chi ne fa parte e che cerca, con le migliori intenzioni, di incentivare ad esempio una ragazza anoressica a mangiare e a cercare di avere una condotta alimentare che sia quanto più sana possibile».

Uno dei problemi è che ci si appella a «convincimenti razionali» ma questo «incentiva le resistenze della ragazza». Per questo, una cosa che i genitori o le persone a lei vicine non dovrebbero mai fare è «proporre alla ragazza di mangiare e, qualora la ragazza abbia un approccio verso il cibo, sottolineare in maniera positiva ciò che sta facendo, sia con mezzi verbali che non verbali».

Rimanere fino a fine pasto

Al contrario, come emerge dalle indicazioni internazionali sul trattamento dell’anoressia del modello della terapia breve strategica, «quando la persona mangia dobbiamo stare con lei finché non ha finito il pasto. E se la persona in questione, poniamo una ragazza, dice cose del tipo “mamma, se mi fai finire questo pasto vuol dire che non mi vuoi bene”, dobbiamo rispondere che la madre sta dalla parte della figlia, che è lì per lei ed è sua complice».

Si tratta di una «comunicazione ambivalente che fa sì che il genitore o la persona che è dentro il suo sistema non siano ostaggio di una patologia che ingabbia, blocca e può portare anche alla morte, oltre che ad una grande sofferenza fisica e psicologica».

 

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