Lavoro 19 Marzo 2020 18:23

Coronavirus, Batani (Nursing Up Emilia Romagna): «Siamo soldati che vanno in guerra con le armi spuntate»

«Le persone che entrano in questi reparti vengono chiusi in una stanza senza niente e senza la possibilità di salutare i familiari. Il picco non è ancora stato raggiunto e l’età media si sta abbassando»

Coronavirus, Batani (Nursing Up Emilia Romagna): «Siamo soldati che vanno in guerra con le armi spuntate»

«Siamo soldati che vanno in guerra con le armi spuntate. La cosa che ci fa arrabbiare, però, è che lo Stato non ce lo dice chiaramente. Non abbiamo protezioni idonee e mettiamo costantemente a rischio la nostra salute e quella dei nostri pazienti. Non siamo supereroi, facciamo solo il nostro lavoro, ma ci sentiamo presi in giro». L’infermiera Francesca Batani, Responsabile per l’Emilia Romagna di Nursing Up, trattiene a stento la rassegnazione, mista a rabbia, per le condizioni in cui lei, i suoi colleghi e tutti gli altri operatori sanitari sono costretti a lavorare per combattere il Coronavirus e salvare quante più vite possibile. «Negli anni hanno ridotto il Ssn all’osso. Non ci sono strutture e personale. Così non si garantisce la salute dei cittadini. Spero – spiega – che, una volta finita questa storia, si ripensi il sistema daccapo». Ma tra le principali preoccupazioni di Francesca ci sono, ovviamente, i pazienti affetti da Covid-19, che lei vede ogni giorno. E qui la voce, che prima era rassegnata e arrabbiata, si incrina: «Le persone che entrano in questi reparti vengono chiusi in una stanza senza niente e senza la possibilità di salutare i familiari. Il picco non è ancora stato raggiunto e l’età media si sta abbassando». E aggiunge: «Abbiamo bisogno anche della mano dei cittadini: chi vuole può far arrivare, direttamente nelle portinerie ospedaliere, mascherine, camici, ecc. per il personale sanitario, ma anche i pazienti hanno bisogno di aiuto. Per loro andranno bene snack, riviste, giornali, cose così. Noi siamo in difficoltà ma loro sono soli, troppo soli…».

Qual è la situazione ad oggi?

«La situazione non si evolve giorno per giorno, ma ora per ora. Gli ospedali si stanno trasformando a mano a mano, diventando completamente Covid. Non siamo ancora nella situazione di città come Cesena, ma mi aspetto di diventarlo. Ci si aspetta un picco e quindi i posti letto vengono tramutati lentamente in letti Covid, fra intensivi, subintensivi e di degenza. Le criticità maggiori, però, sono, come in tutte le altre realtà, quelle relative ai dispositivi di protezione individuali. Nessun operatore si tira indietro, sia esso medico, infermiere oppure OSS, tutti gli operatori vanno a fare il loro lavoro e affrontano la situazione, ma c’è qualcosa che scricchiola: oggi, a seconda del materiale che abbiamo a disposizione, questo diventa idoneo per affrontare il Covid-19, attraverso DPCM e procedure aziendali modificate».

Può spiegarsi meglio?

«Inizialmente, a febbraio, si è partiti che bisognava avere una mascherina FFP3 per trattare pazienti e fare manovre che potevano generare aerosol. Oggi siamo arrivati al punto che per alcune manovre vanno bene le mascherine chirurgiche e le FFP2, non più FFP3. Lo stesso vale per i camici: siamo partiti dalle tute protettive per finire a camici TNT verdi, con su scritto “idrorepellente” anche se di idrorepellenza ce n’è veramente poca. Tutto questo non ci rasserena, non solo per la nostra salute ma perché possiamo diventare untori per gli altri. A volte ci sentiamo, come ci hanno definito alcuni articoli in questi giorni, “carne da macello”. Prima bastava un solo contatto per essere tamponati e messi in quarantena, da soli o con tutto il reparto. Dopo, magicamente, non veniamo più quarantenati. Se succede ad un calciatore, viene messa in quarantena tutta la squadra. Se succede ad un medico, un infermiere o un OSS, si continua a lavorare. Non ci sentiamo tutelati. Anzi, vedere questa dicotomia, secondo la quale per l’operatore sanitario è previsto un trattamento e per il cittadino un altro, fa cadere il rapporto di fiducia. Oggi va di moda definirci “supereroi”, ma noi non lo siamo, non siamo né Batman né Superman. Siamo solo professionisti che fanno il loro lavoro e continuano a farlo nonostante le difficoltà. Solo che ci aspetteremmo onestà da parte dello Stato. Ci dovrebbero dire: “Signori, questa è la situazione: voi ora siete soldati e andate in guerra con queste armi, che sono spuntate”. Non ci devono dire che questa mascherina è idonea, che questo camice è idoneo, quando sappiamo che non lo sono. La mascherina chirurgica, ad esempio, è un dispositivo medico, non un dispositivo di protezione individuale. Ecco, queste sono prese in giro».

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Insomma, non vi sentite tutelati…

«Quando mi hanno chiamata a lavorare in questo reparto Covid ho detto: “Va bene, ho alle spalle tanti anni di malattie infettive”. Ma ricordo bene come funzionava allora: innanzitutto, per andare a lavorare lì, mi hanno sottoposta da uno screening per vedere se corressi il rischio di portare dentro il reparto altre patologie. Poi mi veniva detto chiaramente: “Prima di entrare, prenditi il tuo tempo: questi sono i materiali, le mascherine, ecc.”. C’era insomma una grande attenzione e se avevo un raffreddore mi dicevano “non venire a lavoro, stai a casa”. Qui sta succedendo l’esatto opposto di quanto si prevede per le malattie infettive. Tra l’altro, qui parliamo di un virus nuovo, che non conosciamo, e proprio per questo le precauzioni e i sistemi di sicurezza dovrebbero essere a livelli molto, molto più alti. È una cosa folle, tant’è che tanti sanitari si sono infettati e alcuni stanno anche molto male. Allo stesso tempo c’è da chiedersi quanto abbiamo contribuito noi ad infettare altre persone con questo sistema quando, invece, la prima cosa da fare era garantire la sicurezza proprio in ambito sanitario. Noi, come sindacato, abbiamo sempre chiesto di avere accesso a queste protezioni, dal primo momento».

Avete casi di operatori che si sono ammalati?

«Sì, anche se i numeri precisi non li conosciamo. Ci sono sicuramente dei casi ma non vengono comunicati per non generare panico».

C’è un numero sufficiente di personale in azione o siete in pochi e siete costretti a fare turni più pesanti?

«Dipende dalle varie realtà. Alcune ci riescono ma anche lì si fanno miracoli: togli i letti da una parte, li aggiungi ai reparti Covid, quindi il personale che avevi da quella parte lo aggiungi di qua. Si sta facendo un “sudoku” e si cerca di assumere personale. Noi abbiamo chiesto di proporre contratti a tempo indeterminato, perché chiamare un professionista per 36 mesi, quando magari questo ha già un altro lavoro, non basta per convincerlo a venire qui. Le regole non lo prevedono? Ma se sono saltate le regole volte a garantire la nostra protezione, perché non possono saltare anche quelle contrattuali? In guerra, a questo punto deve valere tutto».

Psicologicamente come state?

«Serve supporto psicologico perché qui diventerà una situazione di stress da lavoro correlato allucinante. Non si tiene conto che noi assistiamo persone che sono completamente sole, che da un minuto all’altro, neanche dall’oggi al domani, vengono prelevate da casa e vengono isolate dentro una stanza, gli viene tolto tutto, anche i panni. Restano chiuse, da sole, in questa stanza e non hanno contatti con nessuno. Se muoiono, non possono essere salutati. Quindi chi saluta un proprio caro non sa se potrà rivederlo. E questo è uno stress enorme per noi che dobbiamo gestire questo tipo di situazione, per i parenti con i quali dobbiamo parlare ma solo telefonicamente. Non è semplice per noi. Ci dobbiamo fare costantemente sostegno psicologico l’un l’altro».

Qual è l’età media delle persone che state curando?

«L’età media si sta abbassando. I numeri li sapremo con esattezza al termine di questa storia, quindi non possiamo fare, adesso, un bilancio definitivo. Quel che raccontano i dati di oggi, però, è che anche persone più giovani, dai 40 anni in su, cominciano ad ammalarsi di più».

L’esplosione di questa pandemia ha rivelato tutte le falle del nostro sistema sanitario

«Il re è nudo. Abbiamo visto che il sistema sanitario, come è stato riscritto, ha fallito. È necessario tornare alla nostra bellissima legge 833 che parlava di prevenzione. Ecco, qui, in Italia, siamo bravissimi a curare una persona malata. Ma la prevenzione, la riabilitazione, hanno patito molto. Non parlo degli screening, quelli li facciamo. Manca proprio l’educazione, quella parte che deve essere sviluppata per non ritrovarsi in queste condizioni, i professionisti ci sono e sono gli infermieri che sanno fare un’ottima prevenzione, perché l’infermiere, a differenza del medico, non cura ma si prende cura della persona in toto. Ecco perché è necessario sviluppare nel territorio gli infermieri di famiglia e gli infermieri di comunità: sono professionisti pro-attivi che possono davvero fare la differenza. Altro aspetto: le strutture. Non abbiamo le strutture necessarie per i ricoveri perché negli ultimi 15 anni abbiamo tagliato l’inverosimile, abbiamo chiuso non so quanti ospedali con i relativi posti letto. Le persone che ricoveri per Covid-19 devono restarci per un periodo medio-lungo. Abbiamo ragionato con ottica imprenditoriale a discapito della salute. Ma la salute è un bene intangibile e deve essere tutelata. La vita è una sola e non può essere sottoposta a ragionamenti di risparmio. È da un pezzo che sosteniamo di essere arrivati all’osso, è tantissimo che diciamo che la sicurezza del paziente in ospedale non c’è. Per fare un esempio, il rapporto infermieri/pazienti dovrebbe essere di 1 a 6, mentre oggi abbiamo, mediamente, un infermiere per dodici pazienti. Lo stesso vale per i medici. Così già prima era problematico garantire la salute di tutti. Con l’arrivo del Coronavirus la situazione è crollata. Personalmente spero che, quando tutto sarà finito, chiederemo tutti insieme che il Ssn venga rifatto, per farlo diventare come dovrebbe essere».

 

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