Salute 28 Luglio 2022 09:30

Epatite Delta, la meno nota è anche la più aggressiva e pericolosa

L’epatite Delta è la più aggressiva fra tutte le epatiti. Con l’obiettivo di fare il punto sulla patologia e di descriverne l’impatto clinico e socioeconomico è stato costituito, in collaborazione con True News, un Gruppo di Lavoro multidisciplinare, composto da clinici, epidemiologi, economisti sanitari, esperti di HTA e di organizzazione sanitaria

Epatite Delta, la meno nota è anche la più aggressiva e pericolosa

in collaborazione con True News

 

Nonostante sia tra le forme di epatite più aggressive e pericolose, l’epatite Delta è anche la meno conosciuta. Questo significa che molti potrebbero averla – e quindi potenzialmente trasmetterla – senza saperlo. E con l’aumento dei flussi migratori, questa malattia considerata oggi rara potrebbe diventare più frequente. Con l’obiettivo di fare il punto sulla patologia e di descriverne l’impatto clinico e socioeconomico è stato costituito, in collaborazione con True News, un Gruppo di Lavoro multidisciplinare, composto da clinici, epidemiologi, economisti sanitari, esperti di HTA e di organizzazione sanitaria. Dopo un lungo lavoro di analisi, è stato prodotto un documento, oggetto di revisione da parte di un comitato scientifico, che è stato recentemente discusso e integrato da esperti di indubbia fama.

L’epatite Delta si contrae solo in presenza del virus dell’epatite B

L’epatite Delta è una forma di epatite virale causata da un virus cosiddetto «satellite», in quanto richiede la presenza del virus dell’epatite B. Sono quindi suscettibili di contrarre epatite Delta sia i pazienti che contraggono contemporaneamente entrambi i virus, sia quelli in cui l’antigene di superficie dell’epatite B (HbsAg) persiste e si viene esposti all’agente HDV (superinfezione). La coinfezione da HBV/HDV ha un decorso quasi sempre acuto e, in più del 90-95% dei casi, si risolve spontaneamente, con l’eliminazione di entrambi i virus.

Nel 5% dei casi l’epatite Delta può cronicizzarsi o essere fatale

In circa il 5% dei casi l’epatite Delta può degenerare in epatite acuta grave, con potenziale rischio di cronicizzazione o evoluzione in un decorso fulminante. Al contrario, nei casi di superinfezione da HDV, la cronicizzazione dell’infezione è documentabile in almeno il 90% dei pazienti. Un’infezione da HDV è definita cronica quando il test HDV-RNA rimane positivo per più di 6 mesi.

In caso di malattia epatica grave è necessario il trapianto di fegato

«L’epatite Delta è un’infezione virale che può causare la forma più severa di danno al fegato», spiega Loretta Kondili, medico ricercatore presso il Centro Nazionale per la Salute Globale dell’Istituto Superiore di Sanità e responsabile della Piattaforma Italiana per lo studio delle Terapie delle Epatiti Virali (PITER), che ha partecipato alla stesura finale del documento. «Nei pazienti che progrediscono verso la malattia epatica allo stadio terminale – continua – può infine rendersi necessario il ricorso al trapianto di fegato, che rappresenta l’unica strategia terapeutica efficace per i pazienti con malattia epatica allo stadio terminale e HCC dovuti a coinfezione o superinfezione HDV/HBV».

In Italia l’epatite Delta ha una duplice epidemiologia

Nella prima «istantanea» sul tema dell’HDV, realizzata con il contributo di Gilead, si evidenzia l’evoluzione dell’epidemiologia dell’infezione nel nostro paese. «In Italia negli anni ’80 l’infezione da HDV era endemica – si legge nel documento – e la sua epidemiologia è cambiata significativamente negli anni. In particolare, l’introduzione dell’obbligo della vaccinazione anti-HBV, ha determinato una significativa diminuzione dell’incidenza. Ad oggi in Italia si presenta quindi una «duplice epidemiologia»: i pazienti con HDV sono infatti o adulti nati in Italia prima del 1979 (e pertanto non immuni ad HBV), oppure immigrati, più giovani. Un elemento che determina una progressione in malattia severa del fegato ad un’età significativamente più giovane rispetto ai pazienti italiani».

L’identikit dei pazienti italiani e le categorie più a rischio

Molto preziosi sono i dati della piattaforma PITER, che, ad oggi, conta circa 4.181 individui HBsAg positivi arruolati con età media di 58 anni, il 63% è di sesso maschile, il 21% di origine non italiana. La prevalenza di anti-HDV tra i pazienti HBsAg positivi testati è risultata essere complessivamente dell’8,8%. «È importante infine considerare – c’è scritto nel documento – che esistono delle categorie di pazienti (ad esempio persone che usano o hanno usato droghe per via endovenosa, persone con malattie sessualmente trasmesse, sex workers, soggetti che assumono farmaci anti HIV come profilassi pre-esposizione, persone che vivono con infezione da HIV) particolarmente a rischio di contrarre HDV».

Un ricovero per epatite Delta può arrivare a costare 9mila euro

In letteratura non esistono solide evidenze sul costo dell’epatite Delta. Un primo tentativo di valorizzazione dei costi a carico del Servizio sanitario nazionale è stato effettuato andando ad analizzare i dati dei ricoveri ospedalieri dal 2015 al 2019. Da questa prima analisi si evince come il valore medio per ricovero, nel periodo oggetto dell’analisi, ammonti dai 7.356 euro ai 9.000 euro per soggetto ricoverato. «Questo dato – si legge nel documento – risulta in linea con quanto evidenziato da un’analisi in real life, secondo cui i costi di gestione dei pazienti HDV ospedalizzati evidenziano, inoltre, un trend ad aumentare nel periodo successivo l’ospedalizzazione per HDV, con costi medi totali per paziente che passano da 9.088 euro prima del ricovero e 17.667 euro dopo il ricovero per HDV (+94,4 per cento)».

Mennini: «I più colpiti sono uomini in età lavorativa»

Un tentativo di quantificare i costi dell’epatite Delta, in relazione anche all’identikit dei pazienti, in Italia è stato fatto dall’Università Tor Vergata di Roma. «Il primo dato che emerge è che, per quanto riguarda la distribuzione dei ricoveri, gli uomini – riferisce Francesco Saverio Mennini, professore di Economia Sanitaria e Economia Politica presso l’Università Tor Vergata e presidente della Società Italiana di Health Technology Assessment (Sihta) – sono in maggioranza rispetto alle donne. Mentre, per quanto riguarda l’età, la fascia va dai 45 ai 65 anni. Si tratta di persone in età lavorativa che, per colpa della malattia, diventano improduttivi. E influisce anche sui costi diretti sanitari: prima la media era di 7/7500 euro a ricoverato, ora tocca i 9/9500».

Per gli esperti è necessario favorire l’accesso ai test diagnostici per l’epatite Delta

Nel documento si ravvisa la necessità di incrementare l’awareness e di favorire l’accesso agli strumenti diagnostici. «Ad oggi esiste una oggettiva difficoltà di accesso al test del HDV-RNA, non disponibile in tutti i centri e soprattutto non ricompreso nei pacchetti di esenzione dei LEA», si legge nel documento. Quindi, il test è a carico del paziente per un costo medio di circa 90 euro.

Tra le difficoltà l’esclusione della diagnostica dai LEA

«Sarebbe utile ed importante che tale diagnostica venisse ricompresa nei pacchetti di esenzione previsti dai LEA, diventando così erogabile a totale carico del SSN», si legge nel documento. «Ciò consentirebbe di semplificare la fase della diagnosi, superando alcune tra le principali difficoltà ad oggi esistenti per un’adeguata gestione di questa patologia», aggiunge.

Per la presa in carico è necessaria una rete locale di valutazione

Sarebbe anche importante promuovere e facilitare la presa in carico dei pazienti con infezione attiva da HDV da parte di centri epatologici di secondo o terzo livello. «Una soluzione potrebbe essere l’organizzazione di una rete locale che preveda la valutazione in collaborazione con i centri per il trapianto di fegato dei pazienti con infezione da HDV e cirrosi scompensata od epatocarcinoma», suggeriscono gli esperti.

Da EMA ok a primo farmaco specifico contro l’epatite Delta

Sul fronte delle terapie la novità più importante riguarda l’approvazione da parte dell’EMA del primo farmaco specifico per l’epatite Delta: si chiama bulevertide, prevede una dose iniettata di 2 mg. «Stiamo vivendo una rivoluzione – dice Kondili – nell’ambito terapeutico. È necessaria una diagnosi precoce dell’infezione Delta nei portatori del virus B e un’appropriata terapia virale per impedire l’impatto clinico ed economico della patologia».

 

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