Gli ultimi dati in Italia indicano un trend in calo: nel 2018 i parti con taglio cesareo sono stati il 33,16%, mentre dieci anni fa erano il 47,78%. Tuttavia resta aperta una delle questioni di cui si dibatte da decenni: continuare con la politica di riduzione dei cesarei o consentire alle donne di poter scegliere come mettere al mondo i loro bambini? Della questione, che ha risvolti non solo medici ma anche filosofici e politici, abbiamo parlato con Clare Wilson, giornalista britannica del New Scientist, da anni in prima linea per difendere il diritto delle donne “di scegliere”.
«Negli anni ’70 e ’80 abbiamo vissuto una fase di eccessiva medicalizzazione del parto: la reazione di oggi è che molte mamme inseguono il parto naturale. È un contraccolpo», spiega la Wilson, che nel 2016 aveva polemizzato apertamente con le indicazioni contenute nella National Maternity Review, una dichiarazione programmatica sulle politiche di assistenza al parto e alla maternità del governo inglese in cui si sottolineava la necessità di ridurre la medicalizzazione del parto, incentivare esperienze non ospedaliere come le nascite in casa o in strutture alternative, puntare sull’assistenza delle ostetriche più che su quella dei medici. «In Gran Bretagna i parti in casa sono il 2-3% del totale. C’è un grave problema di sicurezza per la salute del bambino e della madre. È una scelta personale ma è un grande rischio», spiega Wilson.
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Il tema è tornato di attualità anche per uno scandalo che ha scosso la Gran Bretagna: quello dell’ospedale di Shrewsbury and Telford Hospital Trust, non lontano dalla frontiera con il Galles, dove, come riportato da molto giornali tra cui The Indipendent, il nosocomio avrebbe pagato oltre 50 milioni di sterline come risarcimento ai parenti di bimbi nati morti o con gravi disabilità. In tutto 80 famiglie che hanno denunciato vari errori tra cui ritardi nei trattamenti, mancate risposte all’anormale aumento del battito cardiaco del feto e casi nei quali non sono state riconosciute le complicanze: si tratterebbe di 42 bambini e tre mamme decedute e più di 50 bimbi che hanno subito danni neuronali. Ma i casi attenzionati sarebbero oltre 900 a partire dagli anni ’70. Un vero e proprio “maternity scandal” che ha messo nell’occhio del ciclone l’NHS e che sta cambiando l’approccio del Regno Unito al tema delle nascite.
«Nel Regno Unito c’è stata a lungo una concezione paternalistica del parto, dovuta non solo alle ostetriche – continua la Wilson -. Il concetto era: “Tu fai quello che dico io perché è giusto così”. Noi chiamiamo questo “paternalismo medico”. La reazione è andata così lontana che ora le donne stanno rifiutando anche i necessari interventi medici».
Oggi i sudditi di Sua Maestà vedono un ruolo preponderante delle ostetriche nel parto: «In molti ospedali britannici le ostetriche sono responsabili delle cure che le donne ricevono. Se tu sei sana e non particolarmente in là con l’età potresti non vedere mai un ginecologo, se tutto va bene. Negli Usa è diverso: ogni donna si aspetta di essere sotto la supervisione di un ginecologo», spiega la giornalista.
Clare Wilson non è l’unica giornalista anglosassone a mettere in evidenza le difficoltà e i pericoli che il parto naturale può rappresentare per alcune donne. Nel 2018 Natasha Pearlman, all’epoca direttrice di Elle UK, ha raccontato la sua esperienza personale, il suo travaglio lungo 33 ore e le conseguenze fisiche che il parto naturale aveva prodotto sul suo corpo. Anche lei forse vittima dell’ideologia del “parto naturale a tutti i costi” che oggi però, dopo gli scandali dello Shrewsbury and Telford Hospital, sembra messa in discussione.
La Wilson sostiene con convinzione la libertà di scelta: far scegliere alle donne la modalità di parto che preferiscono. «Vent’anni fa ci fu un sondaggio tra le ginecologhe londinesi: un terzo di loro aveva scelto il parto cesareo. Ciò significa che era una scelta ragionevole anche dal punto di vista medico. La verità è che non c’è una scelta giusta o sbagliata: è una scelta individuale personale. Io dico semplicemente che se scelgo una modalità di parto devo poterla portare avanti».
La libertà di scelta è un tema molto dibattuto in tutto il mondo: negli Stati Uniti, in base alle raccomandazioni dell’American College of Obstetricians and Gynecologists, le donne possono richiedere l’effettuazione del taglio cesareo da farsi dopo la 39° settimana. Diverso il caso dell’Italia, dove secondo le linee guida sul taglio cesareo dell’Istituto Superiore di Sanità, in assenza di una appropriata indicazione clinica, il medico ha il diritto di rifiutare una richiesta di taglio cesareo programmato. Posizione però che non trova concordi tutti gli specialisti, come il professor Pierfrancesco Belli, membro del Comitato di Indirizzo e Controllo dell’agenzia Regionale di Sanità Toscana, secondo cui invece le indicazioni ISS «non hanno nessun fondamento giuridico perché nessuna legge dello Stato lo vieta». Inoltre, secondo Belli «se la paziente si fa refertare dal suo ginecologo curante, dal suo medico di famiglia o da un psicologo che per motivi psicologici è necessario per la salute psico-fisica della donna fare un taglio cesareo, il medico non si può rifiutare per legge».
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