Mondo 26 Aprile 2022 09:57

Guerra in Ucraina, lo choc delle violenze filmate e diffuse. Ma non è una novità

La psicologa spiega l’origine di fenomeni come la de-individuazione e l’effetto Lucifero, che portano l’essere umano a cambiare il suo comportamento

Guerra in Ucraina, lo choc delle violenze filmate e diffuse. Ma non è una novità

Filmare, mostrare, diffondere. Sono gli imperativi categorici dei nostri anni ’20: nell’era dei social e delle condivisioni in tempo reale di materiale fotografico e video, di qualsiasi genere, neanche le violenze perpetrate in guerra fanno eccezione. Durante l’attuale conflitto in Ucraina, è acclarato che tra i soldati russi sia in voga la prassi di non limitarsi a uccidere, torturare, stuprare, ma di documentare queste azioni filmandole e diffondendole.

È la spettacolarizzazione della violenza, una vera e propria pornografia dell’orrore. Che risponde, però, nella maggior parte dei casi, non (solo) a fenomeni di psicopatia individuali, ma che trovano una propria collocazione all’interno di complessi quanto ancestrali meccanismi di psicologia sociale. Non certo una giustificazione, ma una spiegazione in ragione del contesto di riferimento. Ne abbiamo parlato con la psicologa Francesca Andronico, responsabile del network dell’Ordine degli Psicologi del Lazio.

Rabbia, aggressività, de-individuazione

«Prima di andare al cuore della questione è necessario fare un passo indietro per spiegare il contesto – esordisce la dottoressa -. L’aggressività, che nasce dall’emozione primaria della rabbia, è una pulsione insita nell’essere umano. Nei contesti caratterizzati da due opposti schieramenti – spiega –  identificati con rispettivi gruppi di appartenenza, numerosi di psicologia sociale hanno dimostrato che nel momento in cui si indossa un’uniforme, una divisa, qualcosa che identifica appunto la propria appartenenza a un gruppo (e questo vale in guerra come nel calcio) questo senso di appartenenza diventa più forte della volontà individuale, dando vita al fenomeno della de-individuazione, che fa compiere all’essere umano delle azioni che come singolo non farebbe».

«Negli anni ’70 il famoso esperimento di Stanford condotto dal professor Philip Zimbardo – prosegue Andronico – ha riprodotto le condizioni di vita carceraria ha evidenziato come i partecipanti allo studio che interpretavano il ruolo di guardie carcerarie iniziassero a compiere vessazioni di vario genere sui partecipanti che interpretavano i carcerati, solo perché in un contesto di coercizione potevano usare il potere su di loro. Un fenomeno denominato “effetto Lucifero” che ha ispirato anche alcune pellicole cinematografiche. Questo per contestualizzare la genesi dei fenomeni di aggressività in un contesto bellico».

La spettacolarizzazione e il mezzo social

«La spettacolarizzazione di questi fenomeni è un ulteriore step. Vediamo quotidianamente alcuni fenomeni come il cyberbullismo e il revenge porn – osserva la psicologa – e questo ci dice quanto il mezzo video e la diffusione social diventino lo strumento per mostrare e dimostrare agli altri il proprio potere e la propria forza e supremazia. È anche uno strumento che ha una valenza intimidatoria nei confronti dell’altro: per chi lo compie rafforza il senso di appartenenza e il potere, mentre per chi lo subisce o lo vede aumenta il senso di sottomissione e paura, e di inferiorità».

«Ma al di là del mezzo utilizzato – sottolinea Andronico – il fenomeno non è certo figlio dei giorni nostri. Già dal Medioevo abbiamo notizie delle gogne e delle esecuzioni di piazza, che rappresentavano una prassi, un momento pubblico e sociale addirittura. Nulla di nuovo, insomma, nell’attuale spettacolarizzazione e voyeurismo che accompagna la violenza, a cambiare è solo il mezzo attraverso cui renderla pubblica. Nel caso dei conflitti non è più Tizio che compie una violenza su Caio, ma il gruppo di potere che identifica il compimento di quella violenza utile per la propria causa, e il mostrarlo è ancora una volta una cassa di risonanza per l’affermazione del potere. Nel gruppo di appartenenza di chi le compie rafforza il messaggio: siamo i più forti. Nel gruppo di appartenenza di chi le subisce – conclude la psicologa – amplifica il senso di sottomissione e inferiorità ed è perciò strumentale alla causa bellica».

 

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