Contributi e Opinioni 5 Novembre 2020 11:21

Il terzo giorno in un reparto di emergenza Covid-19

È uno spaccato di vita ai tempi del Covid-19 quello raccontato dall’Igienista Dentale Paola Lastella, colpita dal virus. Paola ha deciso di mettere nero su bianco i momenti difficili e spiegare le sensazioni che si provano in un reparto Covid-19. Così ha raccontato la sua storia in un diario in sette giorni in cui i ricordi di quei giorni difficili si intrecciano a sensazioni e stati d’animo

di Paola Lastella, Igienista dentale

Leggi il racconto del primo giorno

Leggi il racconto del secondo giorno

Roma, 18 ottobre 2020 (terzo giorno)

È notte, sarà l’una, mi alzo per andare in bagno, da uno spiraglio dietro una colonna vedo medici e infermieri che si precipitano intorno ad un letto, la tenda è chiusa ma io vedo tutto, rimango pietrificata davanti alla porta della mia stanza da dove si apre la scena, stanno rianimando un signore straniero, si era lamentato tutto il giorno, aveva rifiutato le cure, forse non era molto in sé, è praticamente morto, iniziano a rianimarlo, cercano il carrello dell’emergenza, iniziano le procedure in una situazione concitata, si danno il cambio in tre operatori, per il massaggio cardiaco per un tempo lungo, interminabile, ma il paziente non ce la fa, sembra un manichino inerme, quelli delle esercitazioni, è morto… è morto. Non ce l’ha fatta, era solo, abbandonato, non era in grado di capire, i medici  e gli infermieri hanno fatto il possibile… Resto attonita, senza parole immobile…Non mi era mai capitato, ho la morte nel cuore, di Covid si muore… allora è vero…

Torno a letto, nel mio letto di dolore, mi sento stordita, impaurita, sofferente per non aver potuto fare nulla per quella persona… io sono viva, ma mi sento una deportata in un campo di concentramento, un lager dove il nazista è la malattia, è la paura o forse è la natura che si sta ribellando all’uomo, ma non ho diritto di lamentarmi, io sono viva.

È mattina, viene un’infermiera, forse filippina dall’accento e mi dice che nuovamente mi deve fare un’emogasanalisi, infila l’ago e per dieci minuti mi muove l’ago dentro la carne per cercare l’arteria. “È qui” dice, ma non esce una goccia di sangue, il dolore aumenta, non ne posso più, le dico “per favore mi faccia un altro buco, dove me l’hanno fatto ieri” e le mostro il foro, finalmente mi fa un altro buco e trova l’arteria. Ho le braccia viola, non mi trovano mai le vene, gli aghi cannula mi si sfilano, buchi su buchi…

La mattina a volte non passano la colazione, perché non hanno tempo neanche per preparare le terapie, arriva continuamente gente, arrivano ad ondate, alcuni passano tutto il giorno su una sedia a rotelle, attaccati ad una flebo, perché non c’è posto. I dottori, gli infermieri, sono in affanno, sono stanchi, a volte si sbagliano, corrono continuamente e continuamente cercano di inquadrare i nuovi pazienti, le dimissioni di chi ha solo una polmonite batterica, i casi gravi, i trasferimenti, le terapie.

Mio figlio mi prepara una borsa con dei cambi, ma lui non può uscire, è solo in casa, non è mai stato da solo, ma se la sta cavando. Il suo secondo tampone è risultato positivo al Covid. Aspetto che un’amica torni dal lavoro la sera, Simona, che passa a prendere la borsa e la lascia agli infermieri del reparto, ovviamente senza poter entrare.

 

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