Salute 14 Dicembre 2022 12:13

Tumore al pancreas: siamo sulla strada giusta?

Con le terapie a bersaglio molecolare nuove speranze di guarigione, ma chemioterapia e chirurgia restano le principali armi per affrontare il tumore al pancreas. Al Pancreas Center del San Raffaele i professori Falconi e Reni puntano su diagnosi precoce e multidisciplinarità

Tumore al pancreas: siamo sulla strada giusta?

È considerato il big killer tra le neoplasie. Ma intorno a questo tumore così letale (la sopravvivenza a cinque anni è pari all’11 percento nell’uomo e 12 percento nella donna) negli ultimi mesi è cresciuta la speranza di riuscire a sconfiggerlo.

Una ventata di ottimismo alimentata dal caso Fedez (sottoposto ad un delicato intervento chirurgico reso possibile da una diagnosi molto precoce) e da una eccezionale guarigione raccontata dai media, che sarebbe avvenuta grazie ad un farmaco biologico sperimentale a bersaglio molecolare su una giovane donna di 38 anni affetta da un adenocarcinoma pancreatico nello stadio più avanzato non operabile. Eppure, i numeri vanno ancora purtroppo in un’altra direzione: crescono le diagnosi (nel 2015 sono state 12500 mentre nel 2020 hanno raggiunto 14.300) e, soprattutto, i decessi. ù

«Nel 2030 con ogni probabilità sarà la seconda causa di morte per neoplasie» dichiara a Sanità Informazione Massimo Falconi, primario di chirurgia pancreatica e direttore del Pancreas Center IRCCS San Raffaele di Milano. «Spesso siamo condizionati da una diagnosi tardiva per cui nell’80 percento dei casi siamo costretti a trattare una malattia avanzata – riprende Falconi -. Tuttavia, se la guarigione è un obiettivo che appartiene a pochi, un percorso di cura è per molti e in questo il ruolo degli specialisti è fondamentale». Invertire la rotta che vede ancora il tumore del pancreas in aumento per diagnosi e per decessi è ipotizzabile o meglio possibile grazie al lavoro di team multidisciplinari e alla ricerca.

Non tutti i tumori del pancreas sono uguali

«Si usa genericamente parlare di tumore del pancreas, ma in realtà ci sono diversi tipi di neoplasie pancreatiche – aggiunge  Michele Reni oncologo direttore del programma strategico di coordinamento clinico del Pancreas Center IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano –. Per questo è bene chiarire di quali tumori si tratta quando si evidenziano risultati eccezionali. Tra le neoplasie la più diffusa e aggressiva è l’adenocarcinoma duttale pancreatico, ma esistono altre forme di tumori benigni o a basso grado di malignità come i tumori neuroendocrini o formazioni cistiche a contenuto mucinoso».

Sintomi da non sottovalutare: dolori a stomaco, schiena, calo di peso, depressione, ittero

Fondamentale è dunque la prevenzione. «Per questo è importante non sottovalutare i sintomi, anche se non sono facili da riconoscere. Un sintomo insistente deve portare il medico di medicina generale ad eseguire degli approfondimenti», concordano gli esperti.  Un dolore in corrispondenza dello stomaco o del dorso, tra le vertebre toraciche e lombari, un calo di peso significativo, o ancora una depressione, o la comparsa di trombi negli arti inferiori infatti possono essere fuorvianti. «C’è un sintomo di richiamo più di altri, l’ittero  – evidenzia Falconi – quando la colorazione della sclera degli occhi diventa gialla è importante fare degli approfondimenti diagnostici, così come una intolleranza glucidica in un soggetto magro che non sta abusando di dolci merita attenzione».

Possibili screening per i tumori ereditari e famigliari

Un dieci percento dei tumori pancreatici metastatici poi è di natura genetica. Sono i cosiddetti tumori ereditari. «I più diffusi sono quelli che predispongono il soggetto con il gene mutante BRCA1 e 2 ad ammalarsi come avviene nel tumore alla mammella, all’ovaio e alla prostata – spiega Reni -. Ci sono poi altri geni più rari da identificare che costituiscono un altro cinque percento di casi. Complessivamente i tumori pancreatici ereditari arrivano ad un 15 percento, a cui vanno aggiunti i tumori famigliari, che riguardano una concentrazione sospetta di casi tra consanguinei di primo  e secondo grado pur in assenza del gene mutante, in entrambi i casi c’è l’indicazione ad effettuare dei programmi di screening».  L’Associazione Italiana per lo Studio del Pancreas ha attivato un progetto per seguire e registrare le persone in Italia che possono appartenere a questi due gruppi. «Si parte da un soggetto malato e si evidenzia se è presente il gene mutante – aggiunge Falconi –, in quel caso ai consanguinei viene fatto lo stesso test e, se positivi, vengono sottoposti a screening per tumore della mammella, dell’ovaio, della prostata e del pancreas.  A seconda del sesso vengono poi presi in considerazione degli interventi preventivi di asportazione dell’organo a rischio, ma non del pancreas. Se siamo in presenza di un tumore famigliare, cioè senza una mutazione genetica, ma con una concentrazione sospetta di casi nella stessa famiglia, invece viene fatta una risonanza magnetica dell’addome e una eco endoscopia una volta l’anno ai famigliari consanguinei».

Nuove cure  con farmaci biologici, ma non per tutti

Negli ultimi 25 anni la ricerca ha fatto passi avanti importanti, in particolare con i farmaci biologici, ma non  per tutti. «Diversamente da quanto succede in altre patologie i bersagli dei farmaci innovativi in questa malattia sono estremamente rari e si trovano solo in una o due persone su cento – puntualizzano gli esperti –. Questo fa sì che le linee guida europee non indichino di eseguire i test di profilazione molecolare in modo routinario e non siano dunque disponibili su larga scala, ma solo in ambito di progetti specifici. Non dimentichiamo poi che per decretare la guarigione di un paziente occorre comunque attendere almeno cinque anni. Non è realistico e serio parlare quando non è trascorso almeno  quel periodo, perché sappiamo che questa malattia tende a ricomparire anche dopo parecchio tempo». Un invito rivolto a colleghi e media ad essere sì ottimisti, ma pur sempre cauti anche perché oggi la strada maestra per la cura del tumore al pancreas è ancora la chemioterapia e, quando possibile, la chirurgia. «La multidisciplinarità è l’elemento chiave – suggerisce Reni – la collaborazione tra chirurghi e oncologi è essenziale. Oggi si comincia con un ciclo di chemioterapia sistemica e solo in un secondo tempo se ci sono le condizioni si procede con la chirurgia».

Chirurgia solo al momento giusto

Alcune forme tumorali, per esempio i tumori neuroendocrini, non hanno indicazione a trattamenti chemioterapici e possono essere sottoposte a chirurgia, se in fase iniziale. «Il quadro è in evoluzione – ammette Falconi – abbiamo imparato a valutare la possibilità di azzerare la malattia attraverso l’intervento chirurgico, in una malattia ancora all’inizio, anatomicamente resecabile, senza segni di marcatore elevato in un paziente in buone condizioni. Nei pazienti con adenocarcinoma, invece, l’approccio preferito è sempre la chemioterapia per prima, seguita dalla chirurgia nelle persone che hanno ottenuto una buona risposta al trattamento con normalizzazione dei marcatori tumorali CA19-9, miglioramento clinico e riduzione della lesione. In entrambi i casi la chirurgia va eseguita in centri specializzati».

Pancreas unit, da due anni si lavora in Lombardia

Gli esperti del Pancreas Center del San Raffaele dunque sono fiduciosi, ma invitano alla cautela. «Una comunicazione miracolistica non fa bene – ribadisce più volte Falconi –. Nonostante ci sia bisogno di finanziamenti e di fondi, è meglio essere cauti. Di sicuro oggi abbiamo armi in più per vincere la battaglia contro il tumore al pancreas, ma serve soprattutto una multi-competenza. Fondamentale è dunque riuscire a lavorare con un approccio multidisciplinare in un concetto di Pancreas Unit come avviene già per il tumore alla mammella con le Breast Unit, anche da un punto di vista legislativo». In questa direzione qualcosa è stato fatto proprio in Lombardia. «Da due anni stiamo lavorando con la Regione ad un tavolo per individuare i requisiti minimi per trattare i pazienti con questa patologia rara e lavorare in rete con altri  istituti, per condividere trial sperimentali, ultime novità o saper gestire complicanze – conclude Reni -. In questo modo possiamo offrire un trattamento di qualità ad un paziente senza necessariamente dover affrontare viaggi della speranza, nell’ottica di preservare e mantenere la migliore qualità di vita possibile».

 

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