Salute 3 Dicembre 2024 13:44

Scompenso cardiaco: le comorbidità raddoppiano il rischio di re-ospedalizzazione

Per la prima volta uno studio clinico getta luce sul legame tra scompenso cardiaco e patologie concomitanti non cardiache, come diabete, malattie renali e polmonari, dimostrando come queste ultime aumentino il rischio di un secondo ricovero ospedaliero nei pazienti scompensati e già ricoverati una prima volta
Scompenso cardiaco: le comorbidità raddoppiano il rischio di re-ospedalizzazione

Per la prima volta uno studio clinico getta luce sul legame esistente tra scompenso cardiaco e patologie concomitanti non cardiache, come diabete, malattie renali e polmonari, dimostrando come queste ultime aumentino il rischio di un secondo ricovero ospedaliero nei pazienti scompensati e già ricoverati una prima volta. Secondo un’analisi condotta dall’IRCCS MultiMedica e dall’Università Statale di Milano, pubblicata sullo European Journal of Internal Medicine, i pazienti dimessi dall’ospedale con diagnosi di scompenso accompagnato da più di quattro comorbidità, rispetto a chi non ne ha alcuna, hanno un rischio doppio di re-ricovero, durante il quale trascorreranno in ospedale più del doppio dei giorni, e un rischio di mortalità per tutte le cause due volte superiore.

Un valido indicatore di gravità dello scompenso cardiaco

Oltre all’età, anche il genere è risultato una variabile in grado di influenzare la prognosi dei pazienti, con gli uomini che hanno un rischio di re-ospedalizzazione del 15% superiore rispetto alle donne. “Oggi lo scompenso cardiaco viene valutato sulla base delle classi NYHA (New York Heart Association), basate solo sui sintomi della cardiopatia, senza una descrizione della sua possibile evoluzione nel tempo”, illustra Antonio E. Pontiroli, professore di Medicina Interna all’Università Statale di Milano, ideatore e coordinatore dello studio e consulente di IRCCS MultiMedica. “Il nostro lavoro dimostra come la concomitanza di altre patologie non cardiache rappresenti un valido indicatore di gravità dello scompenso – continua – e della sua probabile traiettoria clinica, candidandosi a diventare un nuovo e utile strumento per stratificare il rischio dei pazienti e selezionare quelli in cui intensificare precocemente le cure, per evitare seconde ospedalizzazioni”.

Scongiurare secondo o terzo ricovero può ridurre gli alti costi sanitari

Lo scompenso è la prima causa di ricovero negli ultra 65enni ed è considerato un problema di salute pubblica di enorme impatto. “Scongiurare che pazienti già ricoverati tornino in ospedale una seconda o una terza volta permetterebbe di contribuire alla riduzione degli alti costi sanitari generati da questa patologia”, sottolinea Pontiroli. Lo studio epidemiologico osservazionale è stato condotto accedendo ai database sanitari messi a disposizione da Regione Lombardia (su oltre 10 milioni di residenti), attraverso un sistema di sicurezza che anonimizza i dati e ne consente l’uso ai ricercatori solo a fini di elaborazione statistica. “Regione ci ha permesso di accedere da remoto ai suoi server e di lavorare direttamente sui suoi macchinari che eseguono le analisi statistiche”, spiega Elena Tagliabue, ricercatrice dell’IRCCS MultiMedica, co-firmataria dello studio. “In questo modo, noi non abbiamo scaricato alcun dato. Inoltre, ogni cittadino – prosegue – è associato sempre a uno stesso codice alfanumerico, che però non consente in alcun modo di risalire alla sua identità. È, quindi, possibile ricostruire l’intera storia di ogni paziente senza sapere chi sia”.

Durata del ricovero e mortalità legate alla quantità delle patologie concomitanti

Lo studio è stato condotto su un’ampia popolazione “real-world” di pazienti, rilevando come in oltre 88.500 dimessi con una diagnosi primaria di scompenso cardiaco, nel periodo 2015-2019, in Lombardia, si siano verificate quasi 80.000 re-ospedalizzazioni per la medesima patologia in circa 42 mesi di follow-up.  “L’indagine ha mostrato che il rischio di tornare in ospedale – suggerisce Giuseppe Ambrosio, professore di Cardiologia all’Università di Perugia e ultimo firmatario dello studio – era significativamente più elevato nei pazienti che presentavano comorbidità non cardiache (malattia renale cronica, diabete mellito, broncopneumopatia cronica ostruttiva, malattia epatica cronica, tumore, malattia cerebrovascolare, malattia vascolare periferica e demenza). Tale rischio cresceva in modo proporzionale all’aumentare del numero di comorbidità presenti. Anche il tempo passato in ospedale e la mortalità per tutte le cause erano proporzionali alla quantità di patologie concomitanti”.

 

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