Mondo 1 Giugno 2022 11:37

Stragi nelle scuole in USA, ecco cosa scatta nella mente degli assassini

La psicologa Giannini (Sapienza): «Contesti difficili e culto delle armi sono bomba a orologeria»

Stragi nelle scuole in USA, ecco cosa scatta nella mente degli assassini

Columbine High School, 1999: 13 morti. Sandy Hook Elementary School, 2012: 27 morti. Marjory Stoneman Douglas High School, 2018: 17 morti. Sono solo alcuni degli episodi di massacri scolastici più sanguinosi avvenuti negli Stati Uniti d’America negli ultimi vent’anni. L’ultimo in ordine cronologico risale a pochi giorni fa: il 24 maggio il diciottenne Salvador Rolando Ramos fa irruzione armato nella Robb Elementary School di Uvalde, in Texas, e uccide a sangue freddo diciannove alunni e due insegnanti, prima di essere catturato e ucciso dalla polizia locale.

C’è un elemento comune, inquietante, che più attira l’attenzione in questo elenco, purtroppo non esaustivo: la parola school. Nonostante, infatti, non siano le scuole gli unici luoghi in cui vengono consumate queste stragi (vedasi il massacro nel supermarket di Buffalo due settimane fa, 10 morti), è lampante che nella maggior parte dei casi sono proprio gli edifici scolastici, e chi vi è dentro, ad essere presi di mira. Del perché proprio le scuole, insieme al profilo psicologico e ai contesti di riferimento che possono contraddistinguere chi compie questi crimini, abbiamo parlato con la professoressa Anna Maria Giannini, professoressa ordinaria di Psicologia Giuridica e Forense presso l’Università di Roma “Sapienza”.

È possibile tracciare un identikit psicologico di chi commette queste stragi?

«Non è semplice, anche solo per il fatto che le informazioni in nostro possesso provengono dagli organi di stampa. Ciononostante, in questo caso, sappiamo che l’autore ha avuto un’infanzia e un’adolescenza difficile, e che è stato bullizzato per una forma di balbuzie che lo affliggeva. Questo sicuramente ci dipinge un soggetto con un percorso di sviluppo complesso. Lui ha postato sui canali social le foto delle armi di cui si era dotato, e ricordiamo che in molti stati degli USA è facile, anche per una persona molto giovane, entrare in possesso di armi da fuoco, e ha poi comunicato, sempre a mezzo social in maniera generica e sibillina, che “sarebbe accaduto qualcosa”.

Viene poi descritto come un ragazzo che nell’ultimo periodo aveva manifestato una maggiore tendenza all’isolamento. Abbiamo quindi due elementi: un cambiamento caratteriale improvviso, una manifesta passione per le armi. Due fattori che non rendono automaticamente un soggetto capace di compiere una strage, ma sono comunque indicatori a cui prestare attenzione. L’adolescenza e la tarda adolescenza sono momenti di sviluppo di per sé complessi, e lo diventano maggiormente se la persona attraversa fasi di disagio, sia a livello personale che collettivo (pensiamo alla pandemia, e agli effetti dell’isolamento e delle restrizioni sui soggetti psicologicamente più fragili)».

Gli autori di questi gesti, oltre che quasi sempre giovani, sono di sesso maschile. È un caso?

«No, assolutamente: la differenza di genere nel caso della violenza agita è ampiamente documentata dai dati e dagli studi. La violenza fisica è più praticata dagli uomini che dalle donne, sia per motivi sociologici che evoluzionistici: il genere maschile è atavicamente più abituato all’uso delle armi in generale e allo scontro fisico, le donne hanno una modalità di espressione dell’aggressività o della violenza diversa, non sono generalmente inclini a meccanismi di offesa così efferati e plateali. C’è poi la questione delle capacità fisiche: imbracciare, sparare e gestire un’arma da fuoco, soprattutto un fucile, richiede una tale forza e resistenza fisica che difficilmente appartiene una donna a meno che non sia appositamente addestrata».

Perché sono proprio le scuole ad essere prese di mira nella maggior parte dei casi?

«La scuola è il luogo dove per antonomasia si raggruppano categorie di persone indifese (i bambini) ed è un contesto completamente avulso dalla violenza armata. Quindi è sicuramente un luogo dove l’assassino ha margine d’azione per colpire un numero alto di persone che sicuramente non avranno strumenti per difendersi. Ma colpire la scuola ha anche un altro significato, più simbolico: è il luogo dell’educazione, dell’innocenza, della crescita. Mettendoci nei panni dell’assassino, stroncare tutto questo sul nascere, distruggere anziché proteggere, è un atto eclatante con una forte valenza dimostrativa. Nel caso del Texas la strage non solo si è consumata in una scuola, ma in una scuola che l’assassino aveva frequentato da allievo, e questo ha probabilmente scatenato nell’assassino un impulso ancora più forte».

Quanto impatta l’accessibilità delle armi con l’effettivo compimento di questi fenomeni?

«Moltissimo, senza dubbio. Non è l’accessibilità alle armi in sé che causa il fenomeno, ma è chiaro che, in generale, nel momento in cui matura un qualsiasi proposito, avere a disposizione i mezzi materiali per realizzarlo ne rende molto più probabile l’effettivo compimento. Pensiamo a chi ha pensieri suicidi, oppure al consiglio che diamo alle donne vittime di violenza domestica dal proprio uomo: se scoppia un litigio e siete in cucina (dove in genere ci sono coltelli), cambiate subito stanza. Il possesso di un’arma deve sempre essere preceduto da un’attenta valutazione psicofisica di chi la deterrà. Negli USA queste valutazioni non sono affatto approfondite, le armi sono accessibili, di fatto, a chiunque. Se mettiamo tutti questi elementi a fattor comune, possiamo intuire il perché negli USA episodi di questo genere siano così frequenti».

 

 

 

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