Contributi e Opinioni 28 Aprile 2020 17:57

Il virus e il mondo che verrà

Questa vicenda sembra una tragica “beffa” per l’uso improprio, anzi l’abuso dell’aggettivo “virale” da parte di chiunque voleva dare importanza a una fake news, a un social network o a un tweet politico. Quando usciremo dal tunnel, perché questa grave pandemia finirà, probabilmente assisteremo a un mutamento del paesaggio umano a cui eravamo abituati. E’ […]

di Lucio Lucchin e Giuseppe Fatati

Questa vicenda sembra una tragica “beffa” per l’uso improprio, anzi l’abuso dell’aggettivo “virale” da parte di chiunque voleva dare importanza a una fake news, a un social network o a un tweet politico. Quando usciremo dal tunnel, perché questa grave pandemia finirà, probabilmente assisteremo a un mutamento del paesaggio umano a cui eravamo abituati. E’ possibile che a cambiare, oltre alle nostre paure e alle nostre certezze, sia anche il panorama sociale, culturale ed economico, che era parte della nostra quotidianità. Di certo questa non è una delle tante crisi, come quella di Chernobyl o della Lehman Brothers, del debito italiano o dei “gilets jaunes”, delle primavere arabe o del terrorismo islamista, che si sono succedute nel corso della storia recente, visto che non risparmia nessuno e, apparentemente, che non è colpa di nessuno.

È possibile che sia l’ennesimo disperato avvertimento di madre Terra prima di farci estinguere, perché questa strana specie, tassonomicamente definita “dell’uomo sapiente”, sembra indirizzata verso livelli sempre più elevati di intollerabile arroganza, di ingiustificata presunzione, di infinita voracità, di incapacità di rispetto, per gli altri e per l’ambiente, mentre riesce a svelare, senza nessun pudore, come in un quadro di Francis Bacon, la sua feroce capacità predatoria. Razziamo, senza sosta, le risorse naturali del pianeta e il futuro dei nostri figli, il cibo disponibile e il reddito dei più poveri, la qualità dell’ambiente naturale e di quello costruito, la nostra umanità e la nostra socialità. Sbilanciamo quotidianamente le forze in campo per il massimo profitto, ignorando che la qualità della vita non è direttamente correlata all’aumento dei profitti.

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Aristide Paci presidente dell’ordine dei medici della provincia di Terni e Segretario Nazionale ANAAO, nel 1987 scrivendo a Donat Cattin, diceva che l’egemonia del profilo contabile aveva ridotto la salute da valore costituzionale a mero capitolo di bilancio e l’assenza di una linea di vera politica sanitaria  determinata da una progettualità erratica elaborata e mediata con gli interessi organizzati. Queste parole sono state tristemente profetiche e con l’aziendalizzazione i vincoli di bilancio si sono fatti sempre più stringenti.  Il numero di posti letto per mille abitanti negli ospedali è sceso di gran lunga sotto la media europea e il Servizio Sanitario Nazionale ha perso 43mila dipendenti. Più volte ci siamo sentiti raccontare che il concetto di valore in sanità si riferisce al risultato raggiunto anche e soprattutto in rapporto al costo atteso del trattamento. L’obiettivo doveva essere quello di massimizzare la redditività del sistema sanitario. Le obiezioni dei sanitari a tali concetti, prettamente economici, venivano considerate anacronistiche.

Il nuovo modello di Ospedale presentato all’inizio del XXI secolo da Renzo Piano si basava sul concetto di Ospedale aperto integrato da attività perisanitarie, esercizi commerciali, alberghieri e di ristorazione, attrezzature collettive, spazi per attività culturali e di intrattenimento. In pratica la parte principale del complesso di fatto pubblica come naturale estensione dell’intorno urbano e del consumismo globalizzato. Andrebbe invece ricercato un nuovo equilibrio fra salute e sicurezza, tra libertà e diritti, tra lavoro e reddito, ma anche, tra sviluppo, sostenibilità e felicità personale. Non possiamo e non riusciamo a dire come sarà il domani, ma se non riflettiamo adesso daremmo concretezza all’aforisma di George Santayana: “Non ricordando il passato, si è condannati a ripeterlo”. Sicuramente dovremmo ripensare al nostro modello organizzativo, culturale e di sviluppo, cioè, alla globalizzazione del pensiero, al consumismo della nostra essenza e all’assurda adorazione del denaro.

Ci preoccupa anche la sottovalutazione della solitudine umana, come l’intolleranza nell’accettare i nostri limiti. Il virus corre veloce e, di conseguenza, corre veloce anche la crisi della nostra democrazia, delle nostre libertà individuali e dell’economia. Forse, abbiamo capito di non avere un sistema istituzionale molto efficiente e che la democrazia rappresentativa, o dà il meglio di sé nei momenti di crisi, o non serve a nulla, perché a gestire l’ordinaria amministrazione ci pensa già l’apparato burocratico e, che non è possibile sospendere le nostre libertà personali con un semplice atto amministrativo, senza uno straccio di dibattito parlamentare. E come non riflettere sull’operato di una Comunità europea che di comunitario,  specie sotto l’aspetto solidale, sembra possedere solo il nome. Abbiamo altre sì capito che non possiamo più vivere con questo perpetuarsi all’infinito del  “virus della burocrazia” che, se costretti a fare qualcosa, ci chiede di nominare un commissario dai poteri straordinari, invece di semplificare delle norme, fatte ad arte per impedirci qualsiasi attività.

Abbiamo dovuto sostituire il concetto di ospedale aperto con quello di ospedale chiuso e riscoprire i reparti a massima intensità di cura. La scienza è sembrata impreparata ad affrontare la battaglia, ma la storia ci insegna che le responsabilità, di solito, sono a carico degli strateghi e non della prima linea. Un pessimo messaggio è passato il 28 marzo in una intervista agli operatori dell’ospedale Spallanzani, dove si enfatizzava l’assenza di contagio tra il loro personale. Sarebbe stato molto grave il contrario, considerando che l’ospedale in oggetto è un centro di eccellenza per le patologie infettive e, come tale, deve sempre essere munito di tutti i dispositivi di sicurezza individuale. Ma purtroppo non è così per gli altri ospedali, come si è evitato, pur nel rispetto dei protocolli, di fare i tamponi ai sanitari ma, allora, non si è capita l’esigenza di farlo alle fidanzate dei calciatori.

E’ mancata una strategia seria di protezione degli operatori sanitari negli ospedali e nelle RSA e non si è tenuto conto della vecchiaia della popolazione anche di quella sanitaria. Nel 2017 più della metà dei medici italiani in attività aveva un’età pari o superiore a 55 anni, ed era la percentuale più elevata dell’Unione Europea. I sistemi di protezioni disponibili sono stati assolutamente deficitari tanto che oggi molti hanno definito chi lavora in sanità eroe o angelo. E’ una retorica inaccettabile e ipocrita  utilizzata anche da chi abitualmente ha svilito la professione medica e utile solo per mascherare le responsabilità del sistema. Ci siamo accorti della mancanza di affidabilità delle strutture sanitarie dal punto di vista della sicurezza ambientale, tecnico costruttiva, impiantistica e soprattutto igienica.

Forse, abbiamo capito di aver rovesciato il valore da dare alle cose, chiudendo gli ospedali e i posti letto che adesso servirebbero, perché ci si è rifiutati di pensare alle nostre fragilità ma, in compenso, si sono tenute aperte le Borse, affinché potessero perpetuare quel delirio tecnologico-finanziario ad alta frequenza, che non ha più nulla a che vedere con l’economia reale. Come, solo adesso, ci accorgiamo dell’importanza della competenza e della ricerca scientifica, nonché delle attività sanitarie, attribuendogli un’eroica dedizione professionale, mentre sarebbe utile ricordarcelo anche dopo, quando saremo ad addebitare al mercato le quotazioni professionali e l’allocazione delle risorse.

Nell’indigestione mediatica su COVID-19 non si è sentito nulla su tutti quei pazienti che non possono permettersi di stare a casa, perché tumorali, nefropatici in dialisi e, ancor meno, di tutti quei cronici improvvisamente spariti dalle strutture sanitarie. Che fine hanno fatto i malnutriti, i diabetici, gli ipertesi, i cardiopatici e gli obesi? Il diritto alla tutela sanitaria di molti è stato momentaneamente sospeso. Infine, abbiamo capito che l’economia sarà un grande problema e che tra qualche mese bisognerà reinventarsi un lavoro, perché non sarà più possibile continuare con questo sistema consumistico e con questa produzione di massa. Sarebbe necessario recuperare un po’ dell’antica saggezza popolare, quella del nonno, che era contadino e a proposito dell’acquisto di un paio di scarpe usava dire “di non essere abbastanza ricco da spendere poco”, perché dovevano durare molto e non fare male ai piedi. Mentre oggi buttiamo via tutto troppo rapidamente, pensando che non sia importante, visto il “poco” che si è speso.

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Siamo dentro a una vicenda epocale capace di cambiare il corso della storia, compresa quella di ognuno di noi, anche se siamo impreparati emotivamente e, singolarmente presi, estremamente fragili. Però, potrebbe essere l’occasione per ricominciare daccapo, usando al meglio la nostra capacità di ragionamento, il nostro coraggio e le nostre facoltà creative e visionarie. Per questo è fondamentale parlare e parlarsi, con la giusta distanza, con il telefono o skype, evitando l’isolamento, perché il silenzio genera mostri. Parlarsi è fondamentale oggi, ma anche, per preparare il domani, perché il “nuovo mondo” non potrà essere gestito con le vecchie logiche, e il consenso non sarà più sufficiente per gestire la complessità del mondo.

La sanità digitale è il futuro prossimo e una opportunità da sfruttare. Il rischio è che nell’ottica dell’emergenza scatenata dalla pandemia, nel momento in cui ci avviamo verso un processo di normalizzazione, le risorse vengano eccessivamente centralizzate e le strutture specialistiche locali non adeguatamente supportate. Per quanto tempo parleremo di Ospedali COVID dimenticando i malati cronici e la loro fragilità? Dimenticando anche che la sfida senza precedenti subita dai servizi di Terapia Intensiva, richiede inevitabilmente anche una pianificazione, ristrutturazione e potenziamento dei servizi dietetici, supporto indispensabile agli intensivisti. Abbiamo sottovalutato il grido di allarme lanciato pochi anni fa, con il  Manifesto delle Criticità in Nutrizione Clinica e Preventiva, Le prime dieci sfide italiane (2015-2018), che avvertiva che  la fragilità dell’anziano dovrebbe essere considerata una sindrome nosografica a sé stante.

Serviranno molte competenze, ma anche un’inedita capacità di pensiero, fatta di ipotesi e soluzioni inusuali, oltre a una visione a lungo termine, evitando di ricopiare le vecchie ricette e di aggrapparci all’ingenua illusione nel potere salvifico della tecnologia. Si dovrà ripartire da noi, dalla nostra capacità di riflessione e dalla nostra intelligenza che, come diceva Immanuel Kant, “si misura a partire dalla quantità di incertezze che è in grado di sopportare”. Sarà necessario ritrovare una passione condivisa, un comune sentire, soffermarci sul valore dell’essenziale e della nostra energia vitale e, per questo, proponiamo a tutti coloro che hanno conservato l’attitudine al ragionamento e alla capacità d’ascolto e, che non hanno posizioni politiche da difendere, di mettersi a disposizione della propria comunità per attivare un dialogo costruttivo, capace di produrre idee per il mondo che verrà.

Lucio Lucchin – Direttore Unità Complessa di Nutrizione Clinica, Bolzano

Giuseppe Fatati – Già Direttore Unità Complessa di Diabetologia, Dietologia e Nutrizione Clinica, Terni

 

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