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Malattie e terapie 16 Aprile 2024

Sindrome dell’intestino irritabile: il ruolo del microbiota intestinale

Annibale (gastroenterologo): “La sindrome dell’intestino irritabile colpisce soprattutto l’universo femminile, specie tra le fasce giovanili della popolazione, con un secondo picco tra i cosiddetti baby boomers (i 60enni e 70enni) che seguono uno stile di vita giovanile e modalità di lavoro ancora attive”

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Gonfiore, mal di pancia, alterazioni della evacuazione, come diarrea e stitichezza, o entrambi in alternanza. Sono questi i principali fastidi e sintomi descritti dalle persone che soffrono della sindrome dell’intestino irritabile. “A caratterizzarla è soprattutto il dolore, tanto che oggi la scienza è concorde sull’affermare che si ha la sindrome del colon irritabile solo in presenza di dolore”, spiega il professor Bruno Annibale, ordinario di Gastroenterologia all’Università Sapienza di Roma. La diagnosi di questa sindrome è clinica, “compiuta ascoltando il paziente, valutando attentamente i sintomi con questionari standardizzati – aggiunge il docente -. I pazienti che ne soffrono accusano dolore addominale persistente e negli ultimi tre mesi lamentano una alterazione dell’evacuazione sia in senso stitico sia l’opposto, diarroico, oppure di alternanza tra i due. Le terapie possono essere diverse, tant’è vero che la sindrome dell’intestino irritabile ancora oggi in realtà riceve un trattamento sintomatico, ma è decisivo avere un colloquio costante col paziente per identificare la possibile cura”. Questa sindrome colpisce soprattutto l’universo femminile, specie tra le fasce giovanili della popolazione, “con un secondo picco tra i cosiddetti baby boomers (i 60enni e 70enni) che seguono uno stile di vita giovanile e modalità di lavoro ancora attive. Ad essa spesso si associa una grande co-morbidità con i disturbi dell’umore, anche psichiatrici, quali depressione, ansia abbastanza diffusi tra chi soffre di un disturbo cronico che non trova soluzione” aggiunge l’esperto.

Il ruolo del microbiota intestinale

“Inoltre – continua il professore Annibale -, non va trascurata nemmeno il crosstalk (colloquio) tra il microbiota intestinale e altri sistemi d’importanza centrale per l’organismo umano, per esempio quello immunitario dove ad un microbiota intestinale sano corrisponde, in generale, un livello immunitario più forte. Questo dipende dal fatto che il tratto digestivo è aperto all’esterno e, contenendo normalmente batteri e gli altri microrganismi (virus, funghi) il sistema immunitario intestinale è in grado di capire se siamo di fronte a batteri o virus normalmente presenti oppure di natura patogena. L’intero processo però funziona bene solo se la barriera epiteliale – rappresentata dalla secrezione di muco che ricopre le pareti intestinali dove c’è il microbiota – non si altera a causa dell’azione di farmaci o con l’ingestione frequente di cibi ultra-processati, quindi con conservanti, inducendo una risposta immune. Va però precisato che si tratta comunque di risposte immuno-locali, con alterazioni che non si vedono sull’epitelio, per cui pur facendo la colonscopia, non si registra un arrossamento dell’epitelio tale da motivare una biopsia e rilevare danni microscopici netti e chiari. In pratica non c’è un biomarker, e questo è il problema della sindrome da intestino irritabile – sensibile fino al 50% all’effetto placebo, osservabile negli stuti randomizzati e controllati. Spesso il rapporto di fiducia tra medico e paziente, se instaurato, rappresenta un effetto placebo significativo al punto da determinare gran parte dell’efficacia terapeutica e farmacologica suggerita al paziente”.

Diagnosi e farmaci

Pur limitandosi ad intervenire sui sintomi, ci sono farmaci sia per la stipsi molto efficaci come anche nella variante diarroica. “Negli Stati Uniti ed in genere nel mondo anglosassone spesso si ricorre anche a farmaci antidepressivi a dosaggi diversi per trattare la sindrome da intestino irritabile, selettivi per il tratto digestivo”, aggiunge lo specialista. Tuttavia, prima di qualsiasi trattamento è utile giungere ad una diagnosi certa. “La prima cosa da fare, come dicono tutte le Linee Guida, inclusa quella Italiana pubblicata pochi mesi fa, è quella di escludere delle specifiche malattie che possono mimare lo scenario clinico della sindrome da intestino irritabile – consiglia il professore Annibale -. Vanno fatti i test ematici con anticorpi specifici per escludere la celiachia, la disfunzione tiroidea, se ci sono delle vere intolleranze, come quella al lattosio. Nell’età adulta (dai 60 in su) è più che opportuno fare la colonscopia perché il cancro al colon è estremamente prevalente, anche se non c’è alcuna diretta causalità. E se i test sono tutti negativi, allora lì siamo di fronte alla sindrome da intestino irritabile dove bisogna agire con la dieta e con i farmaci sintomatici a disposizione”.

Perché il microbiota è associato alla sindrome da intestino irritabile?

Il microbioma rappresenta il patrimonio genetico complessivo di batteri, virus, funghi e fagi che popolano il nostro corpo in quasi tutti gli organi dalla cute al tratto genitale ed urinario, a partire dalla nascita. Il microbiota rappresenta invece le singole specie batteriche, virali e fungine presenti nel singolo individuo, in particolare nell’intestino. “Dal punto di vista terapeutico possiamo agire solo sul microbiota, non sul microbioma. Fisiologicamente, il microbiota è presente lungo tutto il tratto digestivo, con variazioni della numerosità delle specie nei differenti tratti del canale digestivo e varietà diverse di microrganismi – evidenzia il professore – . Assodati studi scientifici, dati sperimentali e studi clinici randomizzati hanno dimostrato come una riduzione della diversità delle varie specie di microrganismi nel nell’intestino si associa allo sviluppo della malattia”.

I test fecali sul microbiota: utilità e attendibilità

“Si tratta di test per lo più commerciali che dimostrerebbero eventuali riduzioni, modificazioni della numerosità, anche di una specie batterica singola, che però le società scientifiche internazionali non hanno mai validato – spiega lo specialista -. Di fatto, l’interpretazione di questi test fecali è assolutamente ancora lontana dal farne un esame diagnostico perché, ad esempio, ciò che viene determinato nelle feci non corrisponde esattamente al microbiota aderente all’epitelio intestinale che invece è clinicamente più significativo ma ottenibile solo con la biopsia dell’epitelio intestinale tramite colonscopia. Con i test fecali, abbiamo solo una rappresentazione parziale rispetto a quello che è presente in realtà nell’intestino. Anche perché un microbiota intestinale sano è quello che può contare sulla più ampia diversificazione e miglior bilanciamento di specie batteriche, fungine, virali presenti e non invece sulla quantità, sul numero assoluto di specie. Non a caso, nel microbiota intestinale, i batteri, i virus, i funghi e i fagi che lo compongono hanno azioni metaboliche di valore fisiologico e pato-fisiologico che, sul piano scientifico, sono oggetto di studio con la metabolomica. Questa metodologia, infatti, studia l’effetto dei metaboliti prodotti da batteri, funghi, virus etc. nelle funzioni intestinali perché sia la motilità che l’assorbimento di sostanze soprattutto nell’intestino tenue – il colon assorbe solo acqua – hanno un’azione più concreta ed attiva. Questo è un concetto che va sottolineato perché, facendo l’analisi del microbiota di individui diversi, a similarità quantitativa di microbiota, un individuo presenta sindrome dell’intestino irritabile e un altro no, perché non basta la conta pura e semplice. Quel che è certo è che ad oggi le conoscenze accurate su microbioma e microbiota, sono ancora un dato sperimentale che stenta ad arrivare in pratica clinica. Di conseguenza – conclude il professore Annibale – un’efficace farmacologia e strategia terapeutica in grado di modulare questo nostro patrimonio intestinale a lungo termine sono di difficile ottenimento”.

 

 

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