Salute 2 Dicembre 2020 09:00

«Quante notti insonni durante il lockdown. Ma nostra missione è prendere in carico ogni storia di vita». Il racconto di un’assistente sociale

Valentina Bellafante (ASL di Pescara) ripercorre i difficili momenti della prima ondata Covid e spiega le differenze con la seconda. Tante le storie difficili: «Penso a quei fratelli gravemente psichiatrici, rimasti soli al mondo, ai quali tra le mura domestiche è improvvisamente mancata per Covid la sorella-tutrice»

«Quante notti insonni durante il lockdown. Ma nostra missione è prendere in carico ogni storia di vita». Il racconto di un’assistente sociale

«Durante la prima ondata Covid abbiamo assistito a situazioni emotivamente molto pesanti, non ho dormito per diverse notti consecutive. Ripenso a quella mia coetanea che ha perso entrambi i genitori e a cui dovemmo spiegare le dolorose disposizioni previste in questi casi…». Sono le toccanti parole di Valentina Bellafante (assistente sociale specialista all’ASL di Pescara) che con Sanità Informazione ripercorre i difficilissimi giorni della prima ondata: «Sembrava di trovarsi in quell’istante in cui l’acqua del mare si ritira per diversi metri lasciando conchiglie, pesci e barche adagiate su un lato, prima di tornare impetuosa e violenta».

Il lockdown, com’era prevedibile, ha aggravato il disagio sociale e situazioni già difficili sono inesorabilmente esplose: «Abbiamo visto donne che giungevano in Pronto Soccorso per riferite violenze domestiche, anziani rimasti soli, totalmente disorientati e con un peggioramento del deterioramento cognitivo, adolescenti con politraumi da precipitazione». Bellafante non nasconde che in questa seconda ondata «oltre alla stanchezza di tutti, si percepisce più forte la trasformazione della calda solidarietà iniziale in attuale ostilità di alcuni».

Dottoressa, cosa fa nel concreto un assistente sociale che lavora in un Servizio Sociale Ospedaliero?

«L’assistente sociale che esercita la sua professione in un SSO svolge le proprie funzioni in favore di persone ricoverate di qualunque età e/o dei loro familiari che si trovano ad affrontare problematiche di natura sociale, connesse direttamente o indirettamente, al ricovero ospedaliero. Al Servizio si registrano interventi sociali richiesti da tutte le Unità Operative, compreso il Pronto Soccorso. L’assistente sociale affronta quotidianamente problematiche multifattoriali che spaziano dalla gestione di casi legati alle donne vittime di violenza, a quelli di minori multi-problematici. Si agisce su casi di anziani – alle volte soli – per i quali si percorre un inserimento in strutture extraospedaliere o si attiva una dimissione protetta. Si ascoltano persone sopravvissute a tentati suicidi e poche ore dopo, si incontrano puerpere che hanno deciso di partorire in totale anonimato, lasciando il nascituro in ospedale. Si prendono in carico senza fissa dimora che necessitano di ogni bene anche primario, e si interviene per pazienti psichiatrici o dipendenti da sostanze di abuso utilizzate, spesse volte, anche durante la gravidanza. Si effettuano colloqui, interventi, prese in carico, si redigono segnalazioni alle Autorità Giudiziarie, pratiche di nomina per amministratori di sostegno, etc. L’assistente sociale attraverso una lettura multidimensionale del bisogno e sospensione di giudizio, prende in carico ogni caso, ogni persona, ogni storia di vita, che quasi sempre lascia qualcosa di sé e ricorda – e alle volte fa chiedersi – perché si è scelta questa professione».

Come è cambiato il lavoro dell’assistente sociale con l’emergenza Covid?

«Nella primissima fase dell’emergenza Covid si è assistito a un considerevole numero di dimissioni ospedaliere volontarie e, contemporaneamente, a un aumento esponenziale di ricoveri di pazienti affetti da coronavirus. Sembrava di trovarsi in quell’istante in cui l’acqua del mare si ritira per diversi metri lasciando conchiglie, pesci e barche adagiate su un lato, prima di tornare impetuosa e violenta. In quei giorni si è iniziato ad affrontare lo straordinario e continuato a gestire l’ordinario, reinventando però nuove strategie e modalità di aiuto da garantire nell’immediato. Inevitabilmente è cambiata la qualità della relazione, abituati a comunicare con l’espressione del viso, con una tonalità di voce che fosse in grado di evocare qualche risposta verbale o non, ci si è ritrovati dietro protezioni che lasciavano a malapena intravedere gli occhi o anche dietro un telefono. Si sono organizzate dimissioni protette per pazienti fragili, attivate procedure operative dedicate al reperimento/ritiro di effetti personali destinati ai degenti/familiari. Si sono facilitati i contatti tra medici e caregiver rimasti forzatamente a casa. Si è attivato un servizio di videochiamate per favorire il contatto diretto tra paziente e familiari annullando la distanza e alleviando lievemente quel senso di isolamento, sgomento e solitudine. In quei giorni, carichi di paura, durante i quali gli aspetti etici e deontologici hanno reso più forte l’impegno professionale, si è continuato ad ascoltare le persone, bloccate all’altro capo del telefono, imparando a contenere anche quel senso di angoscia quando si comunicava loro la morte del proprio caro».

Che differenze ci sono tra la prima ondata e questa seconda ondata Covid nel vostro lavoro quotidiano?

«Qui a Pescara, tra metà aprile e fine maggio, accanto al Presidio Ospedaliero è stato creato il Covid Hospital. Tale realizzazione è stata programmata senza mai trascurare l’aspetto dell’umanizzazione delle cure, che sin dall’inizio si è accostato a quello fondamentale della salvaguardia della salute delle persone. Il Covid Hospital ha permesso un’assistenza specialistica dedicata a coloro che hanno contratto il virus e determinato la possibilità di usufruire di posti letto nei reparti ordinari, riavviando anche per il Servizio Sociale Ospedaliero la consueta attività professionale. È proprio nella recente quotidianità però che, oltre alla stanchezza di tutti, si percepisce più forte la trasformazione della calda solidarietà iniziale, in attuale ostilità di alcuni. Dopo ore di lavoro svolto con dedizione e passione, infatti, ritrovare sull’automobile volantini che negano l’esistenza del Covid ti fa capire che non tutti “fortunatamente” sono consapevoli di quello che rappresenta questa pandemia».

 

C’è qualche storia di disagio sociale che l’ha particolarmente colpita?

«Nell’ambito della nostra professione capita quotidianamente di trovarsi avanti a delle realtà di profondo disagio sociale che la notte non ti lasciano riposare bene. Ammetto che in quei giorni, in cui il Covid ha esposto anche gli assistenti sociali a situazioni emotivamente molto pesanti, non ho dormito per diverse notti consecutive. L’aspetto più amaro è stato sicuramente quello dell’impossibilità per i familiari di salutare per l’ultima volta il proprio caro deceduto per Covid, non avere l’occasione di vederlo, trovarsi nella condizione di non poter portare in obitorio un vestito, in quei giorni non più utile per la sepoltura. Comunicare tali disposizioni a una mia coetanea che perse entrambi i genitori non è stato semplice. Ma penso anche a quei fratelli gravemente psichiatrici, rimasti soli al mondo, ai quali tra le mura domestiche è improvvisamente mancata per Covid la sorella-tutrice. Anche loro, risultati positivi al virus, oltre allo shock della perdita, dovevano essere condotti in ospedale per le cure. Più volte abbiamo mandato l’ambulanza a prenderli, ma loro alla visione del personale con quegli scafandri bianchi, andavano in agitazione psicomotoria rifiutando il trasporto e ogni altro tipo di contatto. È stata dura organizzare i lavori per offrirgli l’assistenza necessaria di cui avevano bisogno per continuare a vivere».

 

Nella sua area, la povertà e il disagio sociale sono cresciuti in questi mesi?

«Lavorando in ospedale dove l’attenzione viene centrata essenzialmente sulla cura e sull’assistenza della persona malata, non è emerso particolarmente il dato della povertà. Tuttavia in quei primi giorni sul campo, accanto a medici e coordinatori infermieristici, quando il mondo fuori dalle mura ospedaliere si era fermato, sono aumentate storie di disagio sociale, storie di vita surreali. Donne che giungevano in Pronto Soccorso per riferite violenze domestiche, anziani rimasti soli, totalmente disorientati e con un peggioramento del deterioramento cognitivo, adolescenti con politraumi da precipitazione. Per ogni persona si è attivato un percorso di accompagnamento alla guarigione, clinicamente adeguato e umanamente rispettoso».

 

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