La malattia di Parkinson è oggi al centro di una preoccupante evoluzione epidemiologica. Se da un lato l’invecchiamento della popolazione mondiale contribuisce a un aumento atteso dei casi, i dati più recenti mostrano che la crescita dell’incidenza va ben oltre le proiezioni demografiche. Attualmente si stimano circa dodici milioni di persone affette da Parkinson a livello globale, un numero che potrebbe superare i venticinque milioni entro il 2050. Questo raddoppio non è spiegabile soltanto con il progressivo invecchiamento della popolazione. Come osserva Giancarlo Logroscino, Professore Ordinario di Neurologia all’Università di Bari e Direttore del Centro per le Malattie Neurodegenerative e l’Invecchiamento Cerebrale presso la Fondazione PANICO, “una volta che standardizziamo per età e aspettativa di vita, osserviamo che mentre la prevalenza dell’Alzheimer cresce dell’1%, quella del Parkinson aumenta del 25%”. Si tratta di un incremento reale e indipendente, che impone una riflessione più ampia sulle cause ambientali e sulle politiche di prevenzione.
Una delle principali concause individuate è l’espansione dell’industrializzazione in aree del mondo dove i controlli ambientali sono minimi o inesistenti. La Cina, ad esempio, è oggi il Paese con la maggiore crescita dell’incidenza del Parkinson, e si prevede che nel 2050 possa contare da sola circa metà dei casi globali. Questa tendenza è attribuita all’elevata esposizione a neurotossine ambientali, spesso collegate all’uso di pesticidi in ambito agricolo o ad altri agenti inquinanti, anche attraverso il consumo di acqua di pozzo.
In Italia, si contano oggi circa 250.000 persone affette da Parkinson e parkinsonismi, contro oltre un milione di pazienti con Alzheimer. A differenza di quest’ultima malattia, la cui incidenza cresce parallelamente all’età, il Parkinson evidenzia un legame molto più forte con l’esposizione a sostanze tossiche ambientali, rendendo l’intervento preventivo ancora più urgente e mirato. A livello clinico, questo implica una maggiore attenzione non solo ai fattori genetici, ma soprattutto agli stili di vita e alle condizioni ambientali dei pazienti.
Curiosamente, alcuni fattori protettivi emergono in controtendenza rispetto alle indicazioni classiche della medicina preventiva. Logroscino evidenzia che, paradossalmente, il fumo risulta essere associato a una riduzione del rischio di Parkinson del 60% tra i fumatori attivi e del 20% tra gli ex fumatori. Anche il consumo di bevande contenenti caffeina, come tè e caffè, è stato correlato a una diminuzione dell’incidenza della malattia, così come un uso moderato di alcol. Questi dati, sebbene controintuitivi, sono confermati da studi epidemiologici internazionali e pongono ulteriori interrogativi sulla complessità dei meccanismi neurodegenerativi coinvolti.
Sul fronte della prevenzione, le evidenze più solide indicano che l’esercizio fisico regolare e una dieta mediterranea a basso indice calorico rappresentano due elementi cardine. A questi si aggiunge la necessità di un’osservazione attenta dei sintomi non motori che precedono spesso l’esordio clinico del Parkinson. La stipsi è uno dei sintomi più precoci e diffusi nella popolazione anziana, mentre i disturbi del sonno, in particolare quelli legati alla fase REM, sono oggi considerati tra i marcatori predittivi più significativi della malattia.
La crescente incidenza del Parkinson, sostenuta da dinamiche ambientali e industriali, impone una revisione profonda delle strategie sanitarie, sia a livello individuale sia sul piano della salute pubblica. Secondo Logroscino, la prevenzione passa da un lato attraverso scelte di policy generale, come un controllo più rigoroso degli inquinanti industriali, e dall’altro da uno stile di vita attivo e consapevole che può fare la differenza negli anni. L’urgenza di agire è evidente: intervenire oggi significa ridurre l’impatto di un’epidemia silenziosa destinata, altrimenti, a raddoppiare nei prossimi venticinque anni.