I ricercatori dell’Università Campus Bio- Medico di Roma hanno identificato il meccanismo attraverso il quale si è ripristinata la conta piastrinica nei pazienti sottoposti al trattamento.
Un gruppo di ricercatori, coordinati dalla professoressa Anna Rita Migliaccio, in collaborazione con 11 centri di ricerca statunitensi, con l’Università di Firenze, l’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi e l’Istituto Superiore di Sanità, ha contribuito a uno studio clinico su 21 pazienti affetti da mielofibrosi avanzata.
La mielofibrosi è un tumore raro che comporta la comparsa nel midollo osseo di un tessuto fibroso che ne modifica la composizione, oltre a provocare l’ingrossamento della milza e del fegato e produrre sintomi quali stanchezza, dolori muscolari, febbre, sudorazioni notturne, prurito e persino trombosi.
I risultati pubblicati sulla prestigiosa rivista Clinical Cancer Research, hanno dimostrato che i 21 pazienti sottoposti a trial clinico di fase I con un farmaco inibitore del transforming growth factor TGF-β 1/3 non sono stati più dipendenti dalla trasfusione di piastrine nel periodo del trattamento. In alcuni casi, hanno potuto anche sospendere le trasfusioni, con un evidente miglioramento della loro qualità di vita. Il periodo di trattamento ha infatti indotto un aumento della conta piastrinica nell’81% dei pazienti, tre dei quali hanno raggiunto livelli normali di piastrine nel sangue. Il trattamento non ha inoltre rivelato tossicità significative.
I ricercatori dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, hanno svolto un ruolo fondamentale nell’identificare il meccanismo attraverso il quale si è ripristinata la conta piastrinica nei pazienti trattati verificando la maturazione dei megariociti, cellule ematopoietiche altamente specializzate e deputate alla produzione delle piastrine. Studi pregressi degli stessi ricercatori del Campus Bio-Medico avevano evidenziato come un alto livello del transforming growth factor β1 (TGFβ1) nel midollo svolge un ruolo primario nell’evoluzione delle malattie mieloproliferative in mielofibrosi. Questo studio ha quindi evidenziato come l’azione del trattamento, interrompendo gli effetti del TGFβ1, promuova la produzione nelle piastrine nei pazienti con mielofibrosi curando, almeno in parte, la loro complessa sintomatologia.
«Questo è un risultato eccezionale – ha spiegato Anna Rita Migliaccio, professoressa a contratto di Istologia ed Embriologia dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, Senior Investigator presso l’Altius Institute for Biomedical Sciences di Seattle – perché nessuno dei trattamenti sperimentali valutati fino ad ora per questa malattia ha avuto un effetto sul numero delle piastrine». «Si tratta di un importante risultato anche per il mondo della ricerca scientifica – prosegue la professoressa Migliaccio -. La collaborazione tra i ricercatori dell’Università Campus Bio-Medico di Roma e la ricerca clinica risulta innovativa nel metodo perché in questo studio la ricerca di base ha continuato a collaborare attivamente anche durante la fase di analisi dei risultati clinici».
La mielofibrosi è un tumore raro appartenente al gruppo delle cosiddette neoplasie mieloproliferative: rappresenta lo stadio finale di forme pre-leucemiche dette malattie mieloproliferative ph negative. La sua incidenza nella popolazione, secondo Orphanet, è pari in Europa a 0,1-1 su 10.000 persone e una prevalenza di 2,7 persone su 100.000; l’età media alla diagnosi è di 65 anni, ma un paziente su 4 arriva alla diagnosi con meno di 56 anni e l’11% è sotto i 46 anni di età.
Le malattie pre-leucemiche sono in genere benigne, facilmente trattabili e consentono una buona qualità di vita per i pazienti, fino a quando, a causa di un meccanismo ancora poco conosciuto, progrediscono in mielofibrosi. Si tratta di una condizione caratterizzata da insufficiente produzione di cellule del sangue nel midollo e sviluppo di ematopoiesi nella milza, che può evolvere in leucemia, per cui l’unica terapia attualmente è il trapianto di midollo.
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