Anche se in Italia si erano già verificati casi sporadici di dengue e chikungunya, soprattutto nel Nord e nel Centro, nuovi dati mostrano come il rischio sia ben più esteso. Uno studio pubblicato su Nature Communications e coordinato dalla Fondazione Bruno Kessler con l’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con Ministero della Salute e Regioni/Province autonome, conferma che la presenza della zanzara tigre (Aedes albopictus), abbinata a condizioni climatiche favorevoli, rende pericolose molte aree del Paese, in particolare le costiere e le periferie urbane.
Negli ultimi anni l’Europa meridionale ha registrato un aumento costante di trasmissioni autoctone, dovuto alla mobilità internazionale, alla diffusione del vettore e all’incremento epidemico in paesi tropicali. Gli autori hanno analizzato i focolai italiani dal 2006 al 2023, utilizzando modelli che considerano densità abitativa, condizioni entomologiche e climatiche. Tra il 2006 e il 2023, sono stati confermati 1.435 casi importati di dengue e 142 di chikungunya. Nello stesso periodo, sono emersi 388 casi autoctoni di dengue e 93 di chikungunya.
Lo studio identifica il periodo tra luglio e fine settembre come quello a più alto rischio per l’insorgenza di focolai, con possibile estensione fino a novembre nelle aree meridionali. I ricercatori osservano che “tutte le aree in cui si è verificata una trasmissione locale erano già identificate come ad alto rischio” nei loro modelli. Allo stesso tempo, molte altre zone mostrano condizioni ambientali simili e, quindi, potenzialmente vulnerabili a nuovi focolai di dengue o chikungunya in caso di “importazione” del virus. Tuttavia, la risposta è stata efficace: ogni focolaio emergente è stato portato sotto la soglia epidemica in circa due settimane grazie a tempestive misure di controllo, confermando quanto possano essere efficaci interventi rapidi e mirati. Ma permangono criticità: i ricercatori segnalano ritardi nella diagnosi, dovuti alla bassa familiarità con queste infezioni, che rallentano l’individuazione dei casi e ostacolano il contenimento.
Le conclusioni sono nette: “Le misure di prevenzione e sorveglianza devono concentrarsi non solo sulle aree già colpite, ma anche su quelle a rischio potenziale“, sottolineano gli autori dello studio. Serve rafforzare la consapevolezza tra operatori sanitari, medici di base e reparti ospedalieri, soprattutto su diagnosi precoci e tempestive. E il messaggio è altrettanto rivolto ai cittadini che rientrano da aree endemiche: attenzione alta, ma senza allarmismi.
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato