C’è un tempo, spesso troppo lungo, che scorre nel silenzio e nell’incertezza tra l’insorgenza dei primi segnali e la conferma clinica della demenza. Secondo una revisione sistematica pubblicata sull’International Journal of Geriatric Psychiatry e condotta da ricercatori dell’University College di Londra, quel tempo è in media di tre anni e mezzo, ma può superare i quattro nei casi di esordio precoce o di demenza frontotemporale. Una distanza diagnostica che, nel concreto, equivale a una lunga attesa per pazienti e famiglie: un tempo in cui i sintomi vengono scambiati per normali segni dell’invecchiamento, in cui si rimanda l’accesso ai servizi. Ma è anche il tempo in cui si potrebbero mettere in campo risorse terapeutiche, interventi personalizzati e sostegni sociali. E, invece, si resta fermi. Le ragioni del ritardo sono molteplici e, in buona parte, sistemiche: percorsi di presa in carico poco chiari, servizi specialistici limitati, personale formato in modo disomogeneo e ambulatori specialistici carenti o assenti sul territorio. Ma c’è anche una responsabilità culturale e sociale: spesso i sintomi iniziali vengono minimizzati, la consapevolezza è scarsa, l’intervento avviene solo quando il quadro diventa grave e invalidante. Eppure, sottolinea Vasiliki Orgeta, autrice principale dello studio, “una diagnosi precoce può permettere di ritardare l’evoluzione verso le forme più severe, migliorare la qualità della vita e garantire un accesso più rapido agli interventi”.
Una camminata quotidiana protegge il cervello
Mentre si cercano soluzioni per accorciare i tempi della diagnosi, si moltiplicano le evidenze su quanto si possa fare per prevenire o rallentare la progressione della demenza. Una di queste arriva dallo studio canadese coordinato da Cindy Barha, che ha monitorato per dieci anni un gruppo di anziani tra i 70 e i 79 anni, molti dei quali portatori del gene APOE4, noto per essere uno dei principali fattori genetici di rischio per la malattia di Alzheimer. I risultati, presentati alla conferenza internazionale dell’Alzheimer’s Association e ripresi a alcune testate americane, mostrano un dato di semplice lettura ma di grande impatto: bastano piccoli aumenti nell’attività fisica quotidiana, anche solo il 10% in più di camminata, per ottenere benefici significativi sulle funzioni cognitive, in particolare quelle legate al pensiero complesso. Un effetto ancora più marcato proprio nei soggetti geneticamente predisposti. L’ipotesi è che l’esercizio favorisca la produzione di BDNF, una proteina essenziale per la vitalità dei neuroni e la plasticità cerebrale. Non si tratta di un effetto marginale: camminare di più ogni giorno, soprattutto dopo una certa età, può diventare un gesto di prevenzione profonda, anche quando la predisposizione genetica sembrerebbe suggerire il contrario.
Prevenzione: “Serve un piano, non solo buone intenzioni”
L’attività fisica, però, da sola non basta. A dimostrarlo è l’U.S. POINTER, uno dei più ampi trial clinici mai condotti sulla prevenzione del declino cognitivo, i cui risultati sono stati appena pubblicati su JAMA. Lo studio ha coinvolto oltre 2mila adulti di età compresa tra i 60 e i 79 anni, tutti a rischio per patologie cardiovascolari, seguiti per due anni in due modalità differenti: un gruppo ha aderito a un programma strutturato, supervisionato e multidimensionale, che prevedeva esercizio fisico regolare, dieta MIND, stimolazione cognitiva, attività sociali e controllo dei fattori metabolici. L’altro ha ricevuto semplici raccomandazioni per attuare gli stessi cambiamenti in autonomia. I risultati sono eloquenti: entrambi i gruppi hanno mostrato miglioramenti cognitivi, ma quello seguito in modo attivo e integrato ha ottenuto risultati significativamente migliori. Il beneficio è stato riscontrato a prescindere da età, sesso, etnia, stato di salute cardiovascolare e presenza o meno del gene APOE4. In altre parole, la prevenzione funziona per tutti, ma funziona meglio se non è lasciata alla sola iniziativa individuale. La chiave è la struttura, l’accompagnamento, il metodo.
Due fronti, una sola strategia: agire prima
Tre studi, tre approcci, un’unica conclusione. Ridurre i tempi della diagnosi e investire su stili di vita protettivi sono due facce della stessa sfida. Intercettare precocemente i segnali di decadimento cognitivo consente non solo di dare un nome al problema, ma di aprire subito lo spazio per interventi efficaci. Allo stesso tempo, promuovere con continuità e metodo l’attività fisica, la socializzazione, una corretta alimentazione e la stimolazione mentale rappresenta una strategia concreta per rallentare la malattia, o addirittura prevenirla, anche nei soggetti più vulnerabili.
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