La PNLA nasce con una missione prevalentemente regolatoria: misura con cadenza mensile – sulla base dei flussi che le Regioni trasmettono ad AGENAS – se visite, esami e interventi rispettano i limiti temporali fissati dal Piano Nazionale di Governo delle Liste d’Attesa (72 ore per le urgenze, 10 giorni per la classe “breve”, 30 o 60 giorni per la “differibile”, 120 giorni per la “programmata”). In pratica, è il termometro che segnala quando le attese diventano patologia del sistema.
Il PNE, invece, è uno strumento di valutazione: analizza indicatori di esito – mortalità a 30 giorni, riammissioni improvvise, complicanze chirurgiche, volumi minimi di attività – per capire se l’ospedale o l’ambulatorio non solo è rapido, ma cura bene. È una lente più che un semaforo: non impone sanzioni automatiche, ma offre dati oggettivi su cui medici e manager possono lavorare per migliorare.
La versione attuale del portale, presentata il 26 giugno e ancora in fase di sviluppo (leggi l’articolo qui), offre una fotografia aggregata a livello nazionale su quattro aspetti principali: quante prenotazioni arrivano, quante prime proposte di data vengono accettate, come si distribuiscono le richieste fra le quattro classi di priorità e quanti giorni in media passano fra la prenotazione e l’appuntamento.
Le viste regionali saranno attivate nei prossimi aggiornamenti, dopo che tutte le piattaforme locali avranno completato l’interoperabilità con la PNLA
Per un cittadino, questi numeri servono soprattutto a capire se la propria attesa rientra nella “temperatura media” del Paese. Se la prestazione urgente che il medico ha prescritto viene fissata oltre le 72 ore, i dati del PNLA possono diventare un elemento di tutela: confermano che quel ritardo non è fisiologico e danno forza alle richieste di soluzioni alternative (per esempio l’esecuzione in regime privato a carico del Servizio sanitario).
Va però sottolineato che, al momento, il portale non permette di scendere al livello del singolo ospedale né di confrontare, per una stessa prestazione, l’offerta in regime istituzionale con quella in intramoenia. Si tratta di funzioni promesse nella roadmap ministeriale per i prossimi rilasci.
Il PNE lavora su un piano diverso. Pubblica ogni anno un set di indicatori che raccontano non quanto si aspetta, ma cosa succede dopo il ricovero o la procedura. Se la mortalità a 30 giorni per infarto è significativamente più alta in un ospedale rispetto alla media nazionale, il dato non implica automaticamente chiusure o commissariamenti; indica però un problema clinico-organizzativo che merita un audit interno e, se necessario, un intervento di Regione o direzione aziendale.
Così come ridurre la mortalità o le complicanze non può giustificare tempi di accesso improponibili, migliorare l’accesso senza considerare la qualità esporrebbe i pazienti a un rischio opposto: tanti servizi disponibili, ma risultati scadenti.
È forte la tentazione di trasformare PNLA e PNE in pagelle, magari con titoli che premiano o bocciano Regioni e ospedali. Ma gli stessi documenti di AGENAS mettono in guardia da letture meramente numeriche.
I tempi d’attesa dipendono da variabili demografiche (età media, densità di popolazione), dalla dotazione di personale e da fattori stagionali: confrontare secco Nord e Sud senza pesare queste differenze restituisce spesso fotografie distorte. Lo stesso vale per gli esiti clinici: un centro che tratta molti casi complessi può avere tassi di riammissione più alti di un centro che affronta patologie banali, ma non è detto che curi peggio.
I due cruscotti non nascono dunque per stilare una classifica a punti. Il loro scopo è evidenziare scostamenti dalle soglie, segnalare best practice e far emergere aree critiche in cui intervenire.
La responsabilità di agire sui risultati della PNLA ricade principalmente su Regioni e Aziende sanitarie: se un indicatore mostra sforamenti sistematici, i Piani regionali delle liste d’attesa devono prevedere azioni compensative, che possono andare dall’apertura di agende serali al coinvolgimento del privato accreditato o all’assunzione di personale aggiuntivo.
Il PNE, invece, chiama in causa le strutture sanitarie: sono loro a dover avviare audit, confrontare i propri percorsi con gli standard e, se necessario, ridefinire l’organizzazione interna. Le Regioni restano garanti, ma l’opera di miglioramento parte dai reparti.
Per il cittadino informato il percorso ideale è duplice. Prima si guarda sul PNLA se il tempo di attesa proposto rientra nei limiti; poi si consulta il PNE per scegliere, quando c’è possibilità di opzione, la struttura con esiti migliori. Le associazioni, a loro volta, possono incrociare i due insiemi di dati per presentare richieste più mirate: chiedere riduzioni di attesa dove i tempi esplodono e sollecitare investimenti in qualità dove gli indicatori di esito segnalano criticità.
I decisori pubblici, infine, traggono da questa doppia chiave di lettura un quadro più solido per programmare: non basta aprire slot di prenotazione se i reparti non reggono la complessità clinica, così come non ha senso mantenere un reparto “di eccellenza” se l’accesso resta di fatto inibito dai ritardi.
Il Ministero ha indicato per il triennio 2025-2026 una serie di sviluppi: integrazione dei dati intramoenia, filtri per singola struttura, automazione degli aggiornamenti mensili e pubblicazione in open-data scaricabili. Quando tutto sarà operativo, PNLA e PNE finalmente parleranno la stessa lingua – tempestività e qualità – a un livello di dettaglio utile tanto alla programmazione centrale quanto alla scelta del singolo paziente.
Fino ad allora, il valore dei due cruscotti sta già nel promuovere una cultura del dato che mette davanti agli occhi di tutti, e in tempo quasi reale, ciò che prima era confinato in relazioni tecniche o in documenti non sempre di facile accesso. Usarli senza ridurli a mera graduatoria, ma come strumenti per ragionare su priorità, investimenti e diritti, è il primo passo verso una sanità più trasparente ed equa.