Contributi e Opinioni 9 Febbraio 2022 13:56

Chi cura gli psichiatri?

di Adelia Lucattini, psichiatra e psicoanalista della Società psicoanalitica italiana (Spi) e dall’International psychoanalytical association (Ipa)

La pandemia ha messo a dura prova tutta la popolazione ma certamente ha avuto una ricaduta particolare in termini di fatica, stress, turni di lavoro massacranti e consapevolezza della gravità della malattia, su tutti gli operatori sanitari e soprattutto sui medici, poiché oberati della responsabilità della diagnosi e cura, non solo del Covid-19 ma anche di tutte le altre patologie.

Per quanto riguarda gli psichiatri ambulatoriali, durante il lockdown non hanno avuto un sovraccarico specifico, poiché i loro pazienti presentavano una situazione di relativa tranquillità: quando il mondo esterno si ferma, i sintomi momentaneamente si attenuano, anche nelle patologie più importanti. Con il ritorno alla vita normale si è avuta infatti una recrudescenza dei sintomi nei pazienti gravi, ma anche in fasce di popolazione che prima della pandemia non avevano avuto un particolare bisogno o non erano mai stati sfiorati dall’idea di ricorrere a cure psicoterapeutiche, psicoanalitiche o a farmaci sia tradizionali che naturali (fitoterapici, integratori, nutraceutici).

Gli psichiatri, gli psicoanalisti e gli psicologi hanno subito quindi un forte impatto dalla pandemia. Ciò che è cambiato, costituendo un elemento di fortissimo stress, sono state le misure di prevenzione da adottare, che hanno stravolto l’assetto dei servizi pubblici e anche del lavoro libero professionale. Tutti gli psichiatri e gli psicoanalisti hanno dovuto trasformare i propri studi e renderli a norma anti-Covid-19, iniziando a adottare anche le psicoterapie e analisi da remoto che prima erano più occasionali e riservate a situazioni particolari, benché autorizzate dalla Società psicoanalitica italiana (Spi) e anche dall’International psychoanalytical association (Ipa).

Certamente gli psicoanalisti hanno maggiori strumenti per padroneggiare gli aspetti traumatici della realtà, perché fanno un training di formazione molto lungo e accurato; gli psichiatri sul posto di lavoro hanno riunioni settimanali durante le quali è possibile parlare oltre che dei casi clinici e di questioni organizzative, anche di elementi stressanti rilevanti che possono essersi verificati. In alcune strutture sanitarie più all’avanguardia, esistono dei Dipartimenti in cui è tenuto in alta considerazione lo stress da lavoro-correlato e anche quello specifico causato dalla pandemia. In tali istituti, sono stati creati dei “Gruppi Balint” per gli operatori sia in presenza che on-line – in alcuni casi con progetti pilota, ad esempio nella Ausl Toscana Centro con un programma per i sanitari di medicina generale particolarmente provati dalla pandemia – in modo da prevenire questo tipo di patologie che possono causare non solo disagio psicologico ma anche malattie fisiche come immunodepressione da stress, somatizzazioni e incidenti sul lavoro dovuti a distrazione da affaticamento mentale.

I medici, talvolta gli psichiatri, psicoanalisti soprattutto, in momenti di difficoltà si rivolgono ai loro colleghi per delle sedute o tranche di terapia che li aiutino ad affrontare meglio situazioni particolarmente critiche sia in ambito professionale che personale. D’altro canto, non c’è da stupirsi: gli psicoanalisti sono abituati a fare la propria analisi durante la formazione e ad avere un rapporto di anni anche con i propri supervisori. Insomma, non temono l’analisi, anzi, conoscendola bene come strumento che hanno sperimentato personalmente, quando ne sentono la necessità vi ricorrono senza pregiudizi, ovviamente con un collega che non frequentano neppure per motivi scientifici, perché per una buona analisi, è necessario che paziente e specialista non si siano conosciuti in precedenza. In queste circostanze, gli psichiatri e gli analisti desiderano essere trattati come tutti gli altri pazienti, avere uno spazio per sé stessi dove riflettere, ricevendo quell’attenzione personale che si ha in modo specifico nella propria analisi. Per qualsiasi medico e anche per un analista talvolta è sentito come un vero e proprio privilegio “stare dall’altra parte”!

Gli psicoanalisti hanno però anche altri strumenti per affrontare lo stress e le difficoltà: i gruppi di lavoro. Fa parte del loro metodo, infatti, incontrarsi con regolarità in gruppi di ricerca e studio. Questo lavorare insieme su un tema (uno dei quali è stato per esempio anche l’essere psicoanalisti durante la pandemia) sicuramente permette di mantenere un buon equilibrio psicologico ed emotivo e mantiene viva l’attenzione e la capacità di riflettere con lucidità, attraverso il confronto continuo con i colleghi che vivono la stessa situazione. Si discute del lavoro e delle nuove modalità in cui si visitano i pazienti, si raffrontano i propri vissuti, le reazioni e le emozioni di ognuno di fronte alle nuove forme di sofferenza che i loro assistiti manifestano e che deve essere non solo gestita ma anche trattata potendo porre le giuste domande e fornire risposte pacate e corrette.

Un’esperienza importante è stata il gruppo di studio sul pensiero di uno dei maggiori psichiatri e psicoanalisti del secolo scorso, l’inglese Ruprecht Wilfred Bion. Tenuto da Maria Adelaide Lupinacci presso la Società psicoanalitica italiana, da dieci anni non si è mai interrotto in tutto questo periodo e si è sempre intersecato con il poter comunicare le proprie esperienze professionali e personali, come psicoanalisti al lavoro e come persone immerse nel divenire della pandemia. Un gruppo produttivo e fecondo di colleghi-amici uniti da uno scopo di ricerca e di studio e al tempo stesso dal desiderio e dalla volontà di incontrarsi, per riuscire a svolgere sempre bene il proprio lavoro di psicoanalisti, nonostante le asperità a cui il mondo esterno ci può far andare incontro.

Particolarmente positiva è stata anche l’iniziativa della dottoressa Monica Horovitz della Société Psychanalytique de Paris, che già dal 2003 teneva un gruppo di studio su Ruprecht Bion e, in occasione del lockdown mondiale del 2020, ha deciso di incentrare invece il lavoro su quello che stava accadendo a noi psicoanalisti durante la pandemia.

A questi incontri regolari mensili, oltre a me, hanno partecipato altri 11 analisti che per varie ragioni erano rimasti bloccati nel loro Paese di origine: quindi in totale 12 professionisti fra italiani, francesi, libanesi e argentini, si sono riuniti durante il lockdown tramite il loro pc, per parlare della loro esperienza come professionisti e come individui in quella fase difficile, con riflessioni personali su aspetti teorici e tecnici e sulla conduzione delle analisi online con i pazienti.

Lavorare in gruppo ha permesso loro di parlare di sé stessi, della pandemia nel proprio contesto culturale, con i propri pazienti e nella propria nazione, in una circostanza assolutamente eccezionale.

Un’esperienza arricchita anche dalla presenza e dal contributo di Janine Puget, psichiatra e psicoanalista argentina che, per l’occasione, ha scritto e regalato al gruppo le sue riflessioni, fra tante, sulla differenza tra tollerare l’incertezza e affrontare l’ignoto.

Così Monica Horovitz ha chiesto a ognuno di noi di scrivere le proprie impressioni e, nelle settimane tra un incontro e altro, di inviarle agli altri membri del gruppo, rileggendo poi tutti i pezzi durante i nostri incontri online. È stato di grande aiuto sapere che stavamo condividendo un evento unico e che i nostri pensieri venivano consegnati agli altri, accolti, rielaborati, “digeriti” da tutti e poi discussi e ripensati tutti insieme.

Molto bella è stata poi anche l’idea di scrivere la prima stesura nella propria lingua e poi tradurla in inglese o in francese: pensare e leggersi in un altro idioma mette in moto forze creative insospettabili! Da tutto ciò è maturato poi il proposito di un’ulteriore rielaborazione per farne un libro che, edito da Solfanelli, sta uscendo in questi giorni: “Psicoanalisti in lockdown”.

 

 

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