Lavoro e Professioni 16 Gennaio 2023 15:52

Sempre più donne in sanità ma sempre meno in posizioni apicali. Ecco perché la parità è ancora una chimera

Le donne medico sono il 50,9% ma ai vertici delle aziende sanitarie arriva solo il 31,5% secondo dati di Openpolis. E nelle direzioni di struttura ancora meno, circa il 20%. Il commento di Rossana Berardi, presidente di Women for Oncology, e di Antonella Vezzani, Presidente di AIDM (Associazione Italiane Donne Medico)

Sempre più donne in sanità ma sempre meno in posizioni apicali. Ecco perché la parità è ancora una chimera

Le donne medico sono sempre di più ma fanno ancora estremamente fatica a ricoprire i ruoli di vertice nel nostro Sistema Sanitario Nazionale. È quanto emerge da un’indagine di Openpolis i cui numeri non lasciano spazio a troppi dubbi: sono infatti il 31,5% le donne che ricoprono ruoli di vertice nelle aziende sanitarie o ospedaliere, cioè poco meno di un terzo nonostante nel 2022 per la prima volta il numero di donne medico sotto i 70 anni abbia superato il numero di uomini (50,9%), un dato che cresce al diminuire dell’età.

Va peggio se si va ad esaminare la quota di donne che ricopre il ruolo di direttore generale o di commissario straordinario di un’azienda sanitaria o ospedaliera, appena il 20,47%. Mentre sono è il 32,34% la quota di donne che ricopre il ruolo di direttore sanitario di un’azienda sanitaria o ospedaliera. Va un po’ meglio tra i direttori amministrativi, dove la percentuale di donne arriva al 41,76%.

«Noi abbiamo anche i dati relativi al ruolo di Direttore di struttura e sono anche più sconfortanti, siamo sul 18-20%. C’è tanto da fare» commenta a Sanità Informazione Rossana Berardi, presidente di Women for Oncology e Professore ordinario di Oncologia Università Politecnico delle Marche e Direttrice Clinica Oncologia Azienda Ospedaliero Universitaria delle Marche.

«Le cause non sono cambiate – spiega Berardi -. C’è da cambiare la cosiddetta sindrome di Ermione, cioè l’incapacità a fare un passo avanti. Dirigo una scuola di specializzazione, ho un gruppo al femminile e sollecito le donne a fare un passo avanti. C’è un timore di fondo che ci limita un po’. Con Women for Oncology stiamo lavorando su questo con percorsi di coaching, leadership. Un altro aspetto è legato alla difficoltà di conciliare tempi di vita e tempi di lavoro. In questi giorni ho ricevuto due maternità – racconta ancora Berardi -. È un momento di gioia per una donna ma questo diritto non sempre si riesce a gestire facilmente. Ho quattro collaboratrici in maternità e la mia struttura è in difficoltà. Quasi sempre le maternità non vengono ricoperte e se vengono ricoperte ci vogliono mesi e quasi si fa in tempo a ritornare dalla maternità. È un aspetto che comunque limita la carriera»

Un’analisi su cui concorda Antonella Vezzani, presidente di AIDM (Associazione Italiane Donne Medico), che sottolinea: «Le donne che vogliono accedere a questo tipo di lavoro apicale sono meno rispetto agli uomini anche perché fare il direttore generale richiede una disponibilità di ore e un carico di lavoro che mal si concilia con l’impegno familiare. E poi dipende anche da quanto la persona sia interessata ad abbandonare la parte professionale e inseguire questa carriera dirigenziale e non più clinica. La scelta di abbandonare la clinica è sempre difficile».

«Inoltre – aggiunge Vezzani – le nuove generazioni di medici non sono più disposti a svolgere un’attività medica rinunciando alla vita familiare. Una maggiore conciliazione viene richiesta anche tra gli uomini. I vecchi primari avevano la famiglia a casa e dedicavano tutto il loro tempo alla professione, oggi non è più così. Bisogna rivedere anche l’organizzazione del lavoro. La mia generazione ha vissuto la professione come una missione, oggi ormai non è più così».

Una delle soluzioni può essere rappresentata dalle quota rosa, che in altri settori hanno comunque permesso l’aumento della presenza femminile. « I dati sono sconfortanti anche nelle società scientifiche, con ad esempio AIOM che ha avuto un solo presidente donna in 50 anni. A livello istituzionale bisogna lavorare per invertire questo sistema. Al congresso europeo di Oncologia medica qualche mese fa hanno mostrato che se la situazione rimane così ci vorranno circa 300 anni per far sì che le donne riescano a raggiungere la parità di genere in questo settore» commenta la professoressa Berardi che aggiunge: «Nella pubblica amministrazione universitaria e ospedaliera c’è già una norma che prevede che la commissione di concorso sia composta da una componente femminile, è importante la presenza di genere nella selezione del personale».

Di positivo c’è che i tempi sono cambiati rispetto a molti anni fa, come racconta Antonella Vezzani: «Io sono anestesista e il mio settore si divideva in due parti, la terapia intensiva e la sala operatoria. Le donne in genere vengono relegate nella sala operatoria mentre la terapia intensiva viene gestita spesso dagli uomini. All’epoca, il primario mi disse: nella mia rianimazione non entrerà mai una donna. Poi con gli anni si è ricreduto e fui scelta proprio da lui per entrare in rianimazione. Alla fine, sono riuscita a ricoprire ruoli importanti: sono stata responsabile di terapia intensiva cardiochirurgica dell’ospedale di Parma. Però non nascondo che è stato un percorso difficile. Io non ho figli e mi sono potuto dedicare completamente alla professione, ma non per tutte è così».

 

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