Contributi e Opinioni 30 Giugno 2021 11:28

Damiano Casalini: la dis-abilità che abilita il talento

di Stefania Tempesta, psicologa Odp Lazio

di Stefania Tempesta, psicologa Odp Lazio

Quando incontro una persona con disabilità sensoriale nasce prepotente un interrogativo: in qual misura dovrei considerarla disabile? Di quale abilità è privo chi è cieco o sordo rispetto a un individuo normodotato che ha cinque sensi perfettamente funzionanti e funzionali a instaurare un rapporto soddisfacente con la realtà esterna?

Recentemente mi è stata proposta un’intervista rilasciata da Damiano Casalini, pittore e imprenditore agricolo che vive ad Albugnano, in provincia di Asti, dove dipinge e si dedica alla sua azienda che conta circa mille piante di nocciole.

Casalini ha 44 anni e convive con la sindrome di Usher, una malattia genetica rara che compromette la funzionalità della vista e dell’udito e ha carattere degenerativo.

Lo seguo mentre si addentra nel noccioleto, cammina nel passaggio che separa due lunghi filari di alberi e accarezza i rami carichi di frutti. Ascolto la sua voce pacata e mi incanto a guardare le mani competenti che scuotono quei frutti: ne tasta il guscio girandolo tra le dita, lo porta all’orecchio e spia il suono all’interno dell’involucro robusto, che “se balla” annuncia che ha raggiunto il giusto grado di maturazione per procedere all’essiccazione.

All’interno della cascina, mostra le varie fasi della lavorazione: alcune meccaniche, altre manuali. Damiano Casalini è un pittore prestato all’agricoltura. Infatti, racconta che dopo il liceo artistico si è laureato all’Accademia di Belle Arti di Torino, ha studiato per un anno a Madrid nell’Accademia di Arte e all’Accademia di Belle Arti di Venezia; ha esposto i suoi quadri in Italia e in Europa.

Damiano Casalini apre le porte del suo studio; mostra tele e disegni realizzati. Per i suoi lavori ha usato la china realizzando parallelamente lavori a olio su tela; la pittura è sempre stata alla base e i disegni sono venuti qualche tempo dopo. Dichiara: «Dipingo per come vedo, per dare un senso a questo problema, che in seguito peggiorerà.» Ascolto ancora: «Dipingo da quando avevo 14 anni, questo avrà pure un senso… Ho deciso di sfruttare questo mio difetto per farlo diventare qualcosa di positivo, mi sembra una soluzione intelligente. Gli ostacoli stimolano la battaglia, anzi sono un motivo in più per andare avanti e reinventarsi ogni volta.»

Seguo le riflessioni di Damiano Casalini mentre scruto i suoi dipinti, che mi colpiscono da subito; decido così di contattarlo per un’intervista e inizio il mio cammino nel suo mondo variopinto.

Quale tecnica pittorica prediligi? Ne utilizzi più di una in base al soggetto che vuoi rappresentare?

«Ho sempre preferito la tecnica dei colori a olio; praticamente tutti i vecchi e i nuovi lavori sono a olio. In passato mi preparavo da solo le tele (ossia tirando una tela grezza sul telaio e poi preparandola con colla di coniglio) ma negli ultimi tempi mi è difficile eseguire tali manovre, quindi sono ricorso alla pittura su masonite. L’olio, a differenza di altre tecniche, è quella che più si avvicina al risultato che voglio ottenere, soprattutto per una questione di luminosità e di materia. La tecnica a olio ha in sé una poetica pari a nessun’altra».

A causa della sindrome di Usher la tua vista non è ottimale; come individui e scegli i colori che intendi utilizzare?

«Oramai la mia percezione dei colori è totalmente “sballata”, infatti il miglior modo per spiegarla è dipingerli. Trovo i colori sulla tavola perché so dove sono, dove li metto. In pratica ho memorizzato dove si trovano e quindi non ho bisogno di guardare. La parte più difficile è quando devo “ricaricare” i colori, quindi uso la lente del cellulare per cercarli. Memorizzare in una situazione come la mia è fondamentale per la “sopravvivenza”. Per esempio, dove lascio le chiavi di casa, dove sono i detersivi per lavare vestiti (in quel caso scelgo detersivi bianchi così capisco quando riempio il dosatore, ma questo è un altro aspetto). Ovviamente non sempre faccio la cosa giusta e magari perdo molto tempo a cercare qualcosa che alla fine è “proprio sotto il naso”. Ultimo aspetto è che avendo dipinto per tanti anni, i gesti con il pennello sono praticamente automatici e non ho bisogno di “controllare” se la dose di colore è giusta».

Quando hai deciso di dare un senso al tuo problema e trasformare questo “difetto” in una risorsa e in un punto di forza?

«Ho iniziato a “fare arte” verso i 14 anni. Avendo avuto la fortuna di viaggiare molto ho potuto visitare un numero considerevole di musei in Europa e questo mi ha permesso di trovare un’identità artistica, una mia personalità; partendo dal surrealismo per poi finire nell’astrattismo sono arrivato a sviluppare un percorso artistico del tutto personale, utilizzando tre colori, bianco nero e rosso. In parallelo ho portato avanti anche lavori a china su carta per un bel po’ di anni e di mostre, tra cui un evento collaterale alla Biennale di Venezia. Poi, la sindrome ha iniziato a bussare… Non ho potuto più fare i lavori di un tempo e quindi mi sono fermato.

Che fare? Spesso mi veniva in mente un pittore russo, Vrubel, che ha dedicato la sua vita alla pittura, poi il destino lo ha condannato alla cecità… A quel punto mi sono interrogato: “Dipingo da una vita, mi piace, sono drogato di arte, sono un artista; devo rinunciare?”. Qui entrano in scena due personaggi: il primo è mia figlia Viola. Tempo prima di desiderare un figlio e di parlarne con sua madre, mi misi davanti a uno specchio e chiesi alla mia immagine che cosa ne pensasse. La risposta fu: «È possibile che peggiorerai. Sei convinto di voler diventare padre? È una grande responsabilità.» Ovviamente replicai di sì, è per questo che decisi di non fermarmi, di trovare un’altra strada artistica. Se avessi smesso non sarei stato più io e comunque non volevo che mio figlio vedesse il padre sconfitto.

Il secondo personaggio è mio fratello maggiore (siamo tre fratelli, il minore e io abbiamo la sindrome, il più grande no). Parlando con lui una sera, non ricordo bene il contesto, mi disse qualcosa come: “Perché non dipingi come vedi? Non esistono trattati o documentazioni al riguardo”. È scattata la scintilla».

“Dipingere ciò che vedi”; ti va di raccontarmi che cosa significa per te vedere e come nascono i tuoi quadri?

«Potrei dipingere qualsiasi soggetto in qualsiasi situazione di luce, poiché è stranamente affascinante come mi si stiano distorcendo sia le figure sia i colori. Dico ciò non perché mi faccia piacere, ovvio, ma per dare “un senso positivo” a questa mia situazione; al momento preferisco soggetti dove si presentano forti contrasti tra luce e ombra: una stanza e la luce che arriva da fuori, oppure una figura molto illuminata con sfondo luminoso, dove tutto si confonde. Altro aspetto che mi interessa è in che contesto di colore si trova un soggetto: in una stanza con pareti rosse percepisco tutto rosso, per quel che percepisco. In un prato tutto viene avvolto da un verde bianco lattiginoso; con uno sfondo cielo tutto aleggia nel blu…

Quando “vedo” o mi ispira un’inquadratura, semplicemente faccio una foto con il cellulare che poi giro sul PC, così da averla un po’ più grande. Prevalentemente rappresento figure umane, più che altro mia figlia Viola, un po’ perché passando parecchio tempo con lei mi si offrono scorci per buoni lavori e soprattutto per un valore affettivo. Qui ci sarebbe da dire molto sulla capacità dei figli bambini nel rapportarsi con genitori invalidi».

A questo punto dell’intervista, espongo a Damiano Casalini il mio pensiero: «Credo che tua figlia abbia un padre che si possa definire speciale, più che invalido. Perdonami se mi soffermo sul termine che hai usato per definire la tua condizione, ma come ho già premesso mi sembra strano attribuire un’invalidità o una disabilità a chi, come te, ha trasformato i propri limiti (ognuno di noi ne ha) in una fonte inesauribile di possibilità». Poi, faccio qualche domanda a sua figlia Viola, di nove anni e concludo indagando questo rapporto così eccezionale.

Hai voglia di raccontarmi come trascorrete il tempo insieme?

«Io e papà passiamo il nostro tempo come tutti, giochiamo a diversi giochi con un po’ di difficoltà perché o non riesce bene a sentire o non vede un oggetto o una carta ma a me non importa: è mio padre e gli voglio bene così com’è con i suoi pregi e i suoi difetti. Nel pomeriggio andiamo in piazza a prendere un gelato, io gli tengo sempre la mano sia perché sono abituata così sia per i pali o le macchine: non voglio che papà si faccia male. Poi alle 5 circa andiamo a casa. Gioco un po’ da sola perché mi piace e poi alle 6 iniziamo a fare i compiti con qualche difficoltà perché papà non riesce a leggere e deve prendere la lente di ingrandimento. Anche se ci mettiamo tanto tempo, alla fine riusciamo. Facciamo cena e alle 9 andiamo a nanna».

Hai detto una cosa molto importante che tutti noi dovremmo imparare sull’amore: che vuoi bene a tuo padre “così com’è, con i suoi pregi e i suoi difetti”; che cosa ti piace di più di tuo padre?

«Mi piace molto il fatto che quando parlo mi ascolta e se c’è un problema mi aiuta e insieme troviamo una soluzione. È molto disponibile verso di me ed è una persona divertente, anche se è troppo ansioso».

Damiano, che tipo di rapporto hai con tua figlia?

«Nel mio rapporto con Viola, ma credo che ciò valga per tutti i genitori con “limiti”, c’è una parte di senso di colpa e un’altra di infinita felicità. Il senso di colpa, mi sembra ovvio, è dovuto a tutte le cose che non posso farle fare, se non con aiuti esterni. Quindi tralascerei gli esempi che non sono difficili da immaginare. A questo punto o ci si abbandona a tristezza, angoscia e disperazione oppure…

Tempo fa qualcuno disse: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. Penso basti questa frase per dire tutto.

Nello specifico mi ritengo fortunato poiché posso passare tanto tempo con Viola (comunque mi ritengo sempre un uomo fortunato) e quindi posso farle fare molte cose. La sua interazione con un genitore con “limiti” è spontanea e affascinante, incredibile; anche qui eviterei esempi di vita quotidiana. Descriverei solamente due dei mille episodi che capitano ogni giorno. Il primo: avendo affittato un alloggio vicino alla sua scuola ho tra le mani un mazzo di tante e tante chiavi; essendo una “nuova prova” i primi due giorni impiego un’infinità di tempo a trovare la chiave giusta; il terzo giorno mia figlia viene da me con il mazzo di chiavi e dice: “Tieni papi, ho messo un pezzo di carta con il nastro adesivo sulla chiave così non devi cercarla, ma la senti”.

Il secondo: tempo fa l’ho portata (o mi ha portato…) al Museo Egizio di Torino; mi teneva per mano e quando dovevo scattare una foto mi reggevo alla sua maglietta un po’ come Dumbo; così abbiamo fatto la visita guidata (molto buia) con un gruppo di persone. Alla fine, un papà chiede a Viola che classe facesse e poi le dice: «Mi è venuta la pelle d’oca a vedere come una ragazzina di nove anni aiuta il suo papà. Credo di non dover aggiungere altro».

 

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