Salute 20 Giugno 2025 08:00

SLA, ecco perché l’organismo non è in grado di “riparare” il DNA danneggiato

Un nuovo studio aggiunge un tassello alla comprensione dei meccanismi molecolari alla base dell’accumulo di danno al DNA in cellule affette nella Sclerosi laterale amiotrofica
SLA, ecco perché l’organismo non è in grado di “riparare” il DNA danneggiato

Una ricerca svolta presso l’Istituto di genetica molecolare “Luigi Luca Cavalli-Sforza” del Consiglio nazionale delle ricerche di Pavia (Cnr-Igm) ha prodotto dei risultati chiave per definire meccanismi molecolari alla base dell’accumulo di danno al DNA in cellule affette da Sclerosi laterale amiotrofica-SLA, una patologia neurodegenerativa devastante e ancora priva di valide prospettive terapeutiche, in continuo aumento nella popolazione mondiale. Lo studio, finanziato da Fondazione AriSLA, ha visto il contributo di ricercatori e ricercatrici dell’Istituto di farmacologia traslazionale (Cnr-Ift), dell’Istituto di biologia e patologia molecolari (Cnr-Ibpm), della Sapienza Università di Roma e dell’Università degli studi Tor Vergata di Roma, dell’Istituto Mondino di Pavia e dell’IFOM di Milano.

Il ‘DNA Damage Response’

I risultati, pubblicati sulla rivista scientifica Cell Death & Differentiation, rivelano che gli aggregati delle proteine FUS e TDP-43, che si accumulano nei pazienti SLA, impediscono alle cellule di segnalare e riparare il danno al DNA: questo porta a un rapido accumulo del danno, causando la perdita di funzionalità del genoma e sofferenza cellulare. Mentre, infatti, in persone sane le cellule dell’organismo riescono a riparare prontamente i molteplici danni subiti ogni giorno dal DNA in esse presente attraverso un processo di “risposta” noto come ‘DNA Damage Response’, nei pazienti affetti da SLA tale risposta cellulare non funziona in modo efficace contribuendo alla neurodegenerazione.

Il contributo di AriSLA

“Già in un precedente studio sostenuto da AriSLA avevamo dimostrato che proprio l’aggregazione delle proteine FUS e TDP-43 impedisce alle cellule di segnalare e riparare il danno al DNA – spiega Sofia Francia, ricercatrice del Cnr-Igm che ha coordinato lo studio -. La conseguenza di questa disfunzione è che il DNA danneggiato si accumula velocemente nelle cellule, portando a perdita di funzione del genoma e ad una sofferenza della cellula stessa. Oggi, l’aver identificato gli attori maggiormente coinvolti da questo difetto ci ha permesso di testare a livello cellulare una terapia con un farmaco già approvato per le sue azioni antibatteriche e che recentemente ha dimostrato avere anche azioni antitumorali. I risultati ottenuti sono estremamente promettenti, in quanto rappresentano un primo passo che ci consentirà di proseguire gli studi su modelli più avanzati e, auspicabilmente, arrivare a potenziali nuove terapie”. Lo studio, infatti, propone di reindirizzare una molecola già approvata per il trattamento di questa malattia, con un potenziale rapido riscontro per i pazienti. “Esprimiamo soddisfazione per questi risultati che derivano da più studi supportati da AriSLA e che ci confermano l’importanza di dare continuità alla ricerca più valida e valutata meritevole dal nostro rigoroso processo di selezione”, aggiunge Anna Ambrosini, Responsabile Scientifico di AriSLA.

Una sfida crescente per la sanità pubblica

La SLA rappresenta una delle sfide più difficili per gli studiosi delle malattie neurodegenerative: le diagnosi sono in crescita esponenziale nel primo mondo per motivi ancora sconosciuti, e l’assenza di terapie risulta in un peso considerevole sul sistema sanitario nazionale. Nel 2040, si prevede che il numero di persone diagnosticate con SLA in Europa aumenterà, con una crescita prevista del 20% rispetto al numero attuale di 28mila casi, raggiungendo i 35mila casi. Tale aumento è in parte dovuto alla mancanza di trattamenti efficaci che rendono la SLA una sfida crescente per la sanità pubblica.

 

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