Prevenzione 24 Giugno 2025 13:19

Diabete di tipo 1, SID: “Diagnosi precoce fondamentale per migliorare la qualità di vita”

Conclusa la sperimentazione avviata in quattro regioni italiane. Gli esperti: “Conoscere lo stadio della malattia prima dell’esordio è oggi possibile. E può fare la differenza”
Diabete di tipo 1, SID: “Diagnosi precoce fondamentale per migliorare la qualità di vita”

“Ricevere la diagnosi prima di un episodio di chetoacidosi oltre a prevenire una grave complicanza permette un controllo glicemico più efficace a lungo termine”. A sottolinearlo è la professoressa Raffaella Buzzetti, presidente della Società Italiana di Diabetologia (SID), commentando i risultati della prima fase dello screening nazionale per il diabete mellito di tipo 1, avviato in attuazione della Legge 130/2023. Oltre 5mila bambini esaminati in quattro regioni italiane: la conclusione della fase pilota rappresenta un passaggio cruciale nella prevenzione di una patologia cronica che, ogni anno, colpisce migliaia di giovani. I dati parlano chiaro: la diagnosi precoce consente un migliore controllo metabolico, un più alto tasso di remissione a tre anni e una riduzione sensibile delle complicanze, sia acute che croniche.

Lo screening universale: un investimento in salute

“La diagnosi precoce di diabete di tipo 1 è associata a un migliore controllo glicemico/metabolico e a un più alto rateo di remissione a 3 anni”, evidenziano gli esperti della SID. Questo approccio permette anche di conservare più a lungo la funzionalità delle beta-cellule pancreatiche e ridurre le ospedalizzazioni nei soggetti sotto i 19 anni. Introdotto in Italia per tutta la popolazione pediatrica fino ai 17 anni, lo screening prevede la valutazione della presenza di autoanticorpi diretti contro le isole pancreatiche. “Nel progetto propedeutico sono stati valutati in 4 regioni bambini di tre fasce di età”, spiega ancora Buzzetti. Pur comportando costi diretti e indiretti, lo screening universale si traduce in una strategia efficace nel medio-lungo termine. I dati dimostrano infatti una riduzione dei casi di chetoacidosi di oltre il 20%, nonché un miglioramento nella gestione complessiva della patologia.

Il contributo della ricerca internazionale

“In particolare, nella popolazione generale lo screening ha portato alla diminuzione dei casi di chetoacidosi diabetica dal 62% al 5%”, ricorda il professor Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute e responsabile del Dipartimento di Medicina Rigenerativa e Trapianti d’Organo dell’Ospedale San Raffaele di Milano. “Nel gruppo con casi familiari e rischio genetico, lo studio Teddy ha evidenziato un’incidenza tra il 17 e il 36% dei casi di chetoacidosi, che si sono ridotti all’11% in quelli sottoposti a screening”. Ma l’evoluzione della malattia non è sempre lineare. “La progressione del diabete di tipo 1 non è lineare” prosegue Piemonti. “Alcuni individui, in particolare giovanissimi, possono passare dallo stadio 1 in cui c’è autoimmunità ma livelli di glucosio normali, allo stadio 3 di malattia conclamata senza passare nella fase 2 di alterazione dei livelli glicemici. In altri casi si assiste a una fluttuazione tra i diversi stadi che oscillano tra remissione e livelli glicemici normali, prima di manifestare la malattia. Inoltre, gli stadi possono avere durata diversa da un individuo all’altro”.

Chetoacidosi: una complicanza da prevenire

Proprio all’ingresso nello stadio 3 si concentra il rischio maggiore: la chetoacidosi diabetica, la complicanza acuta più seria della patologia. Una condizione che può determinare non solo un rischio di mortalità immediato, ma anche conseguenze a lungo termine: alterazioni cerebrali, deficit neuro-cognitivi, aumento del rischio di recidiva, peggioramento del controllo glicemico e aumento della morbidità.

Un approccio precoce migliora l’adattamento

L’identificazione precoce della malattia, al contrario, permette un adattamento più graduale, un minore stress per il paziente e la famiglia, e maggiori opportunità di apprendimento delle strategie di gestione. “L’identificazione e il monitoraggio della malattia prima dell’esordio dei sintomi hanno mostrato benefici, tra cui una riduzione degli episodi di chetoacidosi, minori ospedalizzazioni e maggiore tempo per l’adattamento psicologico e per l’apprendimento delle capacità di gestione della patologia”, concludono gli esperti. L’impatto psicologico non riguarda solo i bambini, ma l’intero nucleo familiare. Ansia, cambiamenti nei rapporti, sovraccarico mentale: sono tutte condizioni comuni dopo la diagnosi. E rappresentano un’ulteriore ragione per agire tempestivamente, garantendo percorsi di supporto e presa in carico.

 

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