Il morbo di Parkinson continua a essere una delle sfide più complesse per la neurologia moderna, ma la ricerca scientifica offre nuove chiavi di lettura che riguardano tanto l’ambiente quanto la biologia del cervello. Da una parte, uno studio condotto negli Stati Uniti ha evidenziato il legame tra l’esposizione a lungo termine al tricloroetilene (TCE), un solvente industriale ancora diffuso, e un aumento del rischio di sviluppare la malattia. Dall’altra, un lavoro internazionale pubblicato su Nature Biomedical Engineering ha permesso di osservare per la prima volta nel cervello umano i minuscoli aggregati proteici che potrebbero rappresentare l’innesco del Parkinson. Due risultati che, intrecciati, raccontano la doppia natura della malattia: influenzata da fattori ambientali esterni e radicata in processi molecolari profondi.
Lo studio pubblicato su Neurology e guidato da Brittany Krzyzanowski del Barrow Neurological Institute di Phoenix ha analizzato i dati di oltre 1,3 milioni di persone, di cui circa 222mila con diagnosi di Parkinson. I ricercatori hanno ricostruito l’esposizione dei partecipanti al tricloroetilene, utilizzato in vari settori industriali e ancora oggi presente nell’aria, nel suolo e nelle acque, incrociando i dati residenziali con quelli dell’Agenzia per la Protezione Ambientale statunitense. È emerso che chi viveva nelle aree con la concentrazione più elevata del solvente presentava un rischio aumentato del 10% di sviluppare il Parkinson rispetto a chi risiedeva nelle zone meno inquinate. Un aumento definito modesto dagli autori, ma che assume un peso rilevante se si considera il numero molto elevato di persone potenzialmente esposte a questa sostanza. “L’impatto sulla salute pubblica potrebbe essere sostanziale – sottolinea Krzyzanowski –. Questi risultati richiamano la necessità di normative più severe e di un monitoraggio costante degli inquinanti industriali”.
Se l’ambiente può contribuire a innescare la malattia, è nel cervello che si nasconde il cuore del processo patologico. Un team di ricerca guidato dall’Università di Cambridge, dall’University College di Londra e dal Politecnico di Montréal ha sviluppato una tecnica innovativa che ha permesso di visualizzare direttamente gli oligomeri di alfa-sinucleina, piccoli aggregati proteici sospettati da tempo di essere i veri “inneschi” del Parkinson. Grazie a un microscopio a fluorescenza a singola molecola, gli studiosi hanno analizzato circa 1,2 milioni di questi aggregati in campioni di cervelli umani post-mortem. Hanno così scoperto che negli individui con Parkinson gli oligomeri erano più grandi, più luminosi e più numerosi rispetto a quelli osservati nei cervelli sani. Un risultato che, come spiega Steven Lee di Cambridge, “ci offre finalmente la possibilità di osservare la malattia dove si trova davvero, non solo dove è già passata, come accade con i corpi di Lewy”.
La combinazione dei due studi mette in evidenza la complessità del Parkinson: una patologia influenzata da fattori ambientali, come l’inquinamento industriale, ma allo stesso tempo radicata in processi molecolari che avvengono all’interno delle cellule cerebrali. Da un lato, la necessità di rafforzare la prevenzione con politiche ambientali più severe, dall’altro, l’opportunità di sviluppare nuovi strumenti diagnostici in grado di intercettare la malattia nelle sue fasi iniziali, quando i primi oligomeri di alfa-sinucleina si formano. Una duplice direzione che apre nuove prospettive per la salute pubblica: ridurre l’impatto dei fattori di rischio esterni e, al tempo stesso, portare la ricerca sempre più vicino a una diagnosi precoce e a terapie mirate.
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