Negli ultimi giorni il paracetamolo, da sempre considerato l’analgesico e antipiretico di riferimento in gravidanza, è finito al centro di un vero cortocircuito comunicativo. Negli Stati Uniti la Food and Drug Administration (FDA) ha annunciato l’intenzione di modificare il foglietto illustrativo dei farmaci a base di acetaminofene per segnalare l’esistenza di evidenze su una “possibile associazione” con disturbi del neurosviluppo nei bambini esposti durante la gestazione. Allo stesso tempo, però, la stessa FDA ha precisato che non è stata stabilita alcuna causalità, invitando i medici a un uso prudente ma confermando il ruolo del farmaco come prima scelta quando clinicamente necessario.
La vicenda ha preso avvio il 22 settembre 2025, durante una conferenza stampa ufficiale, quando il presidente Donald Trump — affiancato dal Segretario alla Salute Robert F. Kennedy Jr. — ha invitato le donne in gravidanza a evitare l’uso di Tylenol (acetaminofene), sostenendo che il farmaco “non è buono” e suggerendo l’esistenza di prove che lo collegherebbero all’autismo nei figli. Queste dichiarazioni, di forte impatto mediatico, hanno suscitato immediata preoccupazione nell’opinione pubblica e hanno spinto la FDA a intervenire con un comunicato ufficiale e una lettera indirizzata agli operatori sanitari. L’obiettivo era chiarire che alcuni studi osservazionali hanno segnalato possibili associazioni, ma che non vi è alcuna dimostrazione di causalità e che il paracetamolo rimane l’opzione OTC più sicura per trattare febbre e dolore in gravidanza quando necessario.
In Europa il tono è apparso quasi speculare: l’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) e l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) hanno ribadito che non vi sono prove di un nesso causale tra paracetamolo e autismo o ADHD e che le raccomandazioni restano invariate: dose minima efficace, per il tempo più breve possibile. Messaggi che suonano rassicuranti, ma che, posti accanto all’annuncio americano di un “label change”, finiscono per generare un contrasto comunicativo difficile da decifrare per chi non ha familiarità con il linguaggio regolatorio.
Il risultato è un terreno fertile per l’incertezza. Da un lato, i cittadini leggono titoli che parlano di “avvisi FDA” e “etichette modificate”, con il rischio di percepirli come una condanna definitiva del farmaco. Dall’altro, in Europa, i comunicati istituzionali insistono sul carattere ipotetico e non dimostrato delle associazioni, dando l’impressione che nulla sia cambiato. Nel mezzo, le donne in gravidanza, chiamate a decidere se assumere o meno un farmaco che fino a ieri era percepito come sicuro, rischiano di oscillare tra allarme e indifferenza.
Clinici e società scientifiche invitano alla cautela proprio sul piano della comunicazione: ricordano che gli studi disponibili sono osservazionali, dunque soggetti a molti limiti, e che il pericolo più concreto resta quello dell’uso improprio—superare le dosi raccomandate o combinare più prodotti contenenti paracetamolo, con rischio di tossicità epatica. Ma sottolineano anche che non trattare febbre e dolore in gravidanza può essere dannoso per madre e feto.
In definitiva, non è tanto il merito scientifico a separare FDA ed EMA/AIFA—tutti concordano sull’assenza di prove di causalità—quanto la scelta dei registri comunicativi: un’etichetta aggiornata negli USA contro rassicurazioni verbali in Europa. Una divergenza che dimostra quanto la gestione del linguaggio, più ancora dei dati, possa determinare la percezione pubblica del rischio.
Fonti