L’aumento delle temperature, le ondate di calore sempre più frequenti, ma anche piogge torrenziali e lunghi periodi di siccità stanno ridisegnando le mappe della salute globale. Patologie come il West Nile virus, trasmesse da vettori come le zanzare, sono solo la punta dell’iceberg. La crisi climatica, avverte la Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), è diventata un’emergenza sanitaria a tutti gli effetti. Lo documenta in un articolo pubblicato sull’International Journal of Environmental Medicine, che analizza il nesso tra fattori ambientali e carico di malattia, alla luce delle più recenti evidenze scientifiche.
“Oggi circa il 24% dei decessi globali – quasi uno su quattro – è associato a rischi ambientali come inquinamento, rumore, cambiamenti d’uso del suolo”, sottolinea Alessandro Miani, presidente SIMA. “Il cambiamento climatico agisce come un moltiplicatore di questi rischi, peggiorando la sicurezza alimentare, diffondendo nuove malattie e minando la salute mentale”. Nel 2021, l’inquinamento atmosferico è stato il secondo fattore di rischio di morte a livello globale, con 8,1 milioni di decessi, anche tra i bambini sotto i cinque anni. Ma il bilancio è destinato a salire: tra il 2030 e il 2050 si stimano almeno 250mila decessi aggiuntivi all’anno legati a malnutrizione, malaria, diarrea e stress da calore.
Il contesto urbano sarà il terreno su cui si giocherà la partita della salute pubblica. Il 56% della popolazione mondiale vive oggi in aree urbane, e secondo le Nazioni Unite si arriverà al 68% entro il 2050 (in Europa la quota è già del 75%). “La salute va integrata nella pianificazione urbanistica, con spazi verdi accessibili, giardini terapeutici e politiche che ripristinino il legame con la natura”, prosegue Miani. L’approccio auspicato è quello del paradigma One Health, che considera congiuntamente la salute di esseri umani, animali e ecosistemi. È in questa prospettiva che iniziative internazionali – come il Green Deal europeo con il piano d’azione per l’inquinamento zero o il programma PaRx canadese per le “prescrizioni verdi” – stanno diventando modelli di riferimento. Anche l’OMS, attraverso il suo Dipartimento per l’Ambiente, i Cambiamenti Climatici e la Salute (ECH), promuove l’integrazione della natura nelle politiche sanitarie.
La ricerca scientifica è concorde: bastano 120 minuti a settimana in natura per ridurre stress, ansia, depressione e pressione arteriosa. Le prove a supporto sono numerose: uno studio del Lancet ha rilevato che chi vive in quartieri verdi ha una minore mortalità cardiovascolare. Una metanalisi su 143 studi ha mostrato un’associazione diretta tra esposizione al verde e riduzione del diabete, dell’asma, dell’ipertensione e dell’ictus. Modelli teorici come la Stress Reduction Theory (SRT) e la Attention Restoration Theory (ART) spiegano i meccanismi psicofisiologici alla base: la natura calma, rigenera, protegge. In molti Paesi, la natura è già entrata nei protocolli sanitari: dalle prescrizioni verdi del NHS britannico, alle terapie forestali in Giappone, fino ai medici di base scozzesi che collaborano con la Royal Society for the Protection of Birds. Anche l’Italia si prepara a fare la sua parte, con l’Accademia Italiana di Biofilia pronta a implementare un programma nazionale di prescrizione naturale, in linea con le più avanzate strategie di salute urbana e prevenzione ambientale.
“Integrare la natura nella vita quotidiana non è un lusso, ma un’urgenza scientificamente fondata – conclude SIMA -. Occorrono nuove infrastrutture verdi, formazione degli operatori sanitari e protocolli clinici aggiornati. La natura è una medicina democratica: accessibile, sostenibile, senza effetti collaterali. Non possiamo più ignorarla”.
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