Gentile Direttore,
In questa nota desideriamo portare il contributo dei Soci della nostra Associazione AFASOP – Associazione dei familiari sofferenti psichici, che opera a Trieste da oltre quarant’anni ed è inserita in un più vasto panorama nazionale di settore per un rilancio degli interventi per la salute mentale. Il nostro cammino iniziò in piena “era basagliana”, durante la fase di transizione dalla chiusura del manicomio all’apertura dei servizi alternativi sul territorio. Fummo incoraggiati a divenire parte attiva del nascente DSM, nei suoi punti di una rete che oggi vediamo più deboli, distanti dai nostri bisogni.
Quel formidabile “lancio” ora esige un “rilancio”, in primis per mantenere virtuosamente lo spirito deistituzionalizzante ed inclusivo. Oggi siamo considerati nel novero dei “portatori di interessi”, ma questa attuale elegante dizione non ha cambiato la realtà di interessi tristi e drammatici: quelli di sostenere, 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, le vite fragili e difficili dei nostri figli e parenti stretti, portatori di disturbo mentale grave, molto spesso esordito in età giovanile. Dediti ogni giorno in questa opera, ci sentiamo parte dei servizi istituzionali, anche se essi non ci riconoscono sempre (e volentieri) un ruolo di partner. Perché partner vogliamo essere; soggetti attivi per migliorare la programmazione e la gestione dei servizi, capaci di cogliere i reali bisogni, e quindi di umanizzarli e personalizzarli. Un ascolto ed una partecipazione che attualmente avvengono molto meno spesso di quanto vorremmo, privando i servizi della possibilità di divenire più prossimi, equi, efficaci ed efficienti (nell’ordine).
Siamo ragionevolmente sicuri che ogni ipotesi di percorso di rilancio debba fondarsi e mirare innanzitutto alla buona relazione di cura. La nostra percezione è che questa sia in peggioramento rispetto al passato. La prossimità è fondamentale per essere accolti, ascoltati e capiti. In passato a Trieste i quattro CSM erano aperti 24 ore al giorno, tutti i giorni. Ora non più. Esisteva un servizio di riabilitazione. Ora è debolissimo. Le distanze tra chi cura ed è curato sono aumentate. La relazione è divenuta prestazione. La continuità di cura è spesso assente, certamente nel lungo periodo. Prima potevamo contare su personaggi di enorme spessore culturale e grandi capacità operative. Oggi dominano le regole, i protocolli, le procedure, le norme; assistiamo a forme di restrizioni di libertà di espressione per gli operatori, di conformismo e spesso opportunismo; derive che hanno ridotto autonomia e capacità di iniziativa dei professionisti. Osserviamo con dolore e sconcerto la fuga degli operatori a causa dei bassi salari e delle demotivazioni legate alla disorganizzazione dei servizi in cui operano.
Siamo convinti che il rilancio debba poggiare sull’attenzione alla qualità degli operatori, per i quali un elemento è la loro formazione. Ma ci chiediamo se questa contempli anche la psichiatria cosiddetta “sociale”, che a noi piace di più chiamare “globale” (olistica), che a Trieste ebbe validi interpreti.
Noi sappiamo che i servizi di salute mentale devono comprendere e raccordare tra loro la prevenzione, la diagnosi, la cura e la riabilitazione. Per noi familiari ciò che più conta sono la cura e la riabilitazione. Soprattutto la riabilitazione, con azioni intersettoriali su tutti i fattori che possono rendere dignitosa la vita dei nostri cari. Tra questi, prima di tutto vediamo il lavoro. Accanto, bisogna ampliare le possibilità che loro possano avere una casa, un reddito vitale, una socialità vera. Ma per l’inclusione sociale serve innanzitutto il lavoro. E’ drammatico constatare che poco fanno le Aziende pubbliche per i collocamenti mirati per persone disabili con disturbo mentale, e peggio fanno le imprese private, che preferiscono pagare le sanzioni per non aver raggiunto le quote, piuttosto che assumere secondo legge.
L’altra via, le Cooperative Sociali di tipo B, che dovrebbero essere il luogo più pertinente, sono penalizzate da pochi bandi-gare pubbliche ad hoc e schiacciate dai vincoli del massimo ribasso. Ma non si può tacere che contribuisce all’insuccesso anche la debolezza dei servizi istituzionali di inclusione lavorativa. Purtroppo molti dei nostri cari non riusciranno mai a lavorare: per costoro è necessario pensare a nuove forme di sostegno vitale dignitoso, adeguato per una buona vita.
A nostro avviso, occorre innanzitutto ripartire dal conoscere i bisogni e predisporre in coerenza le risposte. Tra queste, oggi nei servizi ci appare sempre più carente la capacità di costruire per ogni singola persona un progetto di vita personalizzato e di farne seguire una solida presa in carico, inclusiva dei familiari, mediante i budget di cura individuali.
Questi ultimi, pur quando adottati, rivestono spesso valore più formale che sostanziale. Per realizzare una vera, concreta, ben percepita presa in carico abbiamo bisogno di porte aperte 24 ore al giorno, tutti i giorni, nei CSM, che vorremmo ritornino ad essere luogo di vera prossimità di cura, di progetti educativi, riabilitativi, di animazione e socializzazione, con il fine ultimo di una riappropriazione dell’autonomia. Luoghi partecipati da rappresentanze di operatori e familiari, delle Associazioni di volontariato e Promozione Sociale; punti di incontro per riunioni tra familiari e operatori (sempre troppo pochi), per superare difficoltà e sofferenze. Osserviamo che oggi manca una diffusa cultura della presa in carico globale della persona e della famiglia, anche perché vanno scomparendo gli operatori-esempi di buone pratiche, testimoni di uno slancio ideale. Ora serve rimediare ai difetti delle equipe multiprofessionali, uniche in grado di dare risposte globali, ben oltre le mere terapie farmacologiche, insufficienti per le condizioni complesse e di lungo termine dei nostri cari. Occorre quindi ricreare reti integrate ed integranti di professionisti-operatori della sanità e di altri ambiti, necessariamente ben guidati a convergere in modo unitario sui bisogni della persona. A Trieste si è tramandata per anni una virtuosa eredità nei servizi, che da tempo si è dispersa, perché troppi decisori politici e tecnici vi hanno posto l’etichetta dispregiativa di “ideologica”. Ma se la “nostra” è ideologia, perché non dovrebbe esserlo altrettanto la “Loro”? Le alternative proposte sono dichiarate “impossibili”. Ma come? Eppure le abbiamo viste in passato! Nei servizi oggi bisogna aggiungere, non togliere. Ad esempio, ci piace ricordare che durante il biennio 2017-2019 abbiamo sperimentato il progetto S.T.I.D., Supporto e Trattamento Intensivo Domiciliare, multiprofessionale e multidisciplinare, nato con l’intento di offrire interventi attraverso un’equipe di crisi mobile, capace di “sostenere” le fasi di acuzie nel contesto abituale di vita del paziente, con esiti di una riduzione dei ricoveri e dei TSO. Ora tutto è sospeso. Temiamo che le nostre vite, più che i bilanci, diventino “insostenibili”.
Accanto alle ombre, una luce che potrebbe illuminare il percorso potrebbe venire dai LEA. Ma i LEA dell’assistenza psichiatrica vanno resi più chiari e cogenti, anche mediante indicatori e standard precisi. I LEA sono essenziali, perché soddisfano il criterio dell’appropriatezza (sono di provata efficacia) e della compatibilità finanziaria (sono approvati dal MEF). Questo dovrebbe garantirne la piena esecutività, divenendo doveri di offerta da parte delle Istituzioni e diritti di ricevimento da parte degli utenti. Invece ogni giorno vediamo che non è così. Questo punto è cruciale: oggi ci manca la certezza di risposte ai nostri bisogni. L’austerità e la sottostante ideologia neoliberista ha fatto divenire i LEA diritti condizionati dalle risorse, con l’articolo 32 della nostra Costituzione sottoposto all’articolo 81, la cui modifica, votata da tutte le forze di “sinistra”, impone l’obbligo dell’ “equilibrio” (invero: pareggio) di bilancio dello Stato e degli Enti Locali. Così, i sottofinanziamenti non riescono a soddisfare i bisogni oggettivi di moltissime persone così vulnerabili.
Vediamo la causa nelle rigide politiche economiche di austerità, sostenute anche dai partiti che si autoproclamano progressisti, misure che hanno portato miseria ai servizi pubblici ed alla gente, e paradossalmente hanno peggiorato quegli indicatori macroeconomici (debito e deficit pubblico, PIL, eccetera) che volevano correggere, con pesanti effetti avversi “umani”, soffocando lo stato sociale, la sanità pubblica, il nostro welfare. Oggi sentiamo dire (addirittura da Mario Draghi, artefice nel 2011 delle politiche di austerità avviate dal governo Monti) che i soldi che prima non c’erano ora ci potrebbero essere, con nuovi debiti. Bene: siano a favore di nuovi interventi di salute. E dato che non c’è salute senza salute mentale, con questi soldi dei nuovi debiti – chissà perché solo ora possibili – chiediamo che venga finalmente raggiunto il mitico 5% di spesa per la salute mentale, atteso da anni. Questa ci sembra la base per un vero percorso di vero rilancio. Ma serve cultura, verità, spirito critico, coraggio. Per un rilancio che riporti a noi ed ai nostri cari le speranze per un migliore “oggi” e più sereno “dopo di noi”. Noi continueremo ad adoperarci per non vedere più violati il terzo e quarto articolo della Costituzione, per noi più rilevanti perfino dello stesso articolo 32: ove si parla (art. 3) di una Repubblica che “rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale, limitanti di fatto la libertà… impedenti il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione…”; di “diritto al lavoro” per tutti (art.4).
Riassumendo, per un “rilancio della salute mentale” queste noi riteniamo siano le parole chiave e le azioni ineludibili connesse: presa in carico, prossimità, lavoro, reddito; LEA. E, fondamentale: stop all’austerità, che distrugge le libertà.
Valgono per noi quelle prospettate da Pepe Mujica – personaggio vero di una vera sinistra: “libertà dalla fame, dalla sete, dal dolore, dalla paura, dalla costrizione”. Il dolore, la paura, la costrizione sono da decenni per noi esperienze quotidiane: continuiamo a cercare aiuto per viverle in modo più sopportabile, se non per evitarle.
Tiziana Tomasoni, Claudio Cossi – AFASOP Trieste