Nel labirinto ancora in parte oscuro della malattia di Alzheimer, la ricerca italiana aggiunge un tassello che potrebbe cambiare prospettiva. Un team del Dipartimento di Medicina Sperimentale e del Centro di Ricerca in Neurobiologia “Daniel Bovet” della Sapienza Università di Roma ha scoperto un complesso “dialogo” molecolare tra due meccanismi di regolazione genica – la metilazione del Dna e l’azione dei microRna – che controlla direttamente la produzione della proteina beta-amiloide. Il lavoro, pubblicato su Alzheimer’s & Dementia, rivista ufficiale dell’Alzheimer’s Association, offre una nuova chiave di lettura su come la cellula regoli la formazione di una delle principali protagoniste della malattia.
Lavori a confronto
“Per anni abbiamo cercato di eliminare le placche amiloidi, con risultati spesso deludenti. Ora l’obiettivo è capire come impedirne la formazione alla fonte”, spiega Andrea Fuso, coordinatore dello studio. Le placche sono infatti composte da beta-amiloide, una proteina prodotta da due enzimi – le cosiddette “forbici molecolari” – codificati dai geni Psen1 e Bace1. In precedenti lavori, il gruppo di Fuso aveva già mostrato che la produzione di Psen1 può essere ridotta attraverso un processo epigenetico: la metilazione del Dna, un meccanismo che “spegne” il gene. Restava da chiarire come fosse regolato Bace1.
La chiave di un controllo integrato
Lo studio svela ora che la regolazione di Bace1 avviene in modo indiretto: la metilazione del Dna controlla l’espressione di un microRna chiamato miR-29a, che a sua volta “silenzia” Bace1. Quando miR-29a è attivo, la produzione di beta-amiloide si riduce. “La scoperta più sorprendente – sottolinea Fuso – è che la metilazione del gene che produce miR-29a, invece di bloccarlo, ne aumenta l’attività. È un meccanismo controintuitivo, ma rivela una sofisticata logica di controllo cellulare”. In sintesi, la metilazione del Dna agisce su due fronti: spegne Psen1 e, al tempo stesso, attiva miR-29a, che inibisce Bace1. Due percorsi diversi che convergono sullo stesso risultato: ridurre la produzione di beta-amiloide. “È come aver trovato la chiave di lettura di un processo che finora osservavamo solo nei suoi effetti”, commenta ancora il ricercatore. “Abbiamo capito che la cellula usa un pannello di controllo integrato, in cui Dna e microRna comunicano per regolare un processo vitale la cui alterazione porta alla malattia”.
L’epigenetica come nuova frontiera terapeutica
La scoperta non si limita alla teoria. Il gruppo romano ha dimostrato che tutto questo sistema può essere modulato dal cosiddetto one-carbon metabolism, un ciclo biochimico influenzato da nutrienti come le vitamine del gruppo B e da molecole come la S-adenosilmetionina (Sam). “Somministrando Sam – spiegano gli autori – si aumenta la metilazione, si attiva miR-29a e diminuisce la produzione di beta-amiloide”. Un dato che apre alla possibilità di sviluppare farmaci epigenetici capaci di agire “a monte” del processo neurodegenerativo. L’epigenetica, dunque, torna al centro della scena. In parallelo, sono in corso studi su altri composti in grado di modulare la risposta cellulare, come la vitamina K2 o fattori presenti in estratti di cellule staminali e uova di pesce (stamisoma). “Questi approcci – sottolineano i ricercatori – potrebbero avere effetti anche su altri processi patologici collegati all’Alzheimer, come la neuroinfiammazione o il danno ossidativo”.
Biomarcatori per la diagnosi precoce
Un’ulteriore prospettiva riguarda la diagnosi precoce. Il profilo di metilazione di Psen1 e i livelli di miR-29a nel sangue potrebbero diventare biomarcatori per individuare la malattia nelle sue fasi iniziali o per monitorare la risposta ai trattamenti. Lo stesso gruppo ha già messo a punto un biosensore capace di misurarli in modo semplice e non invasivo. “Comprendere come i nostri geni vengono accesi o spenti e poter intervenire su questi interruttori è una delle sfide più promettenti della medicina moderna – conclude Fuso -. Con questo lavoro abbiamo aggiunto un tassello che ci avvicina a capire l’Alzheimer e a costruire nuove strade per combatterlo, agendo non più solo sul sintomo, ma sull’origine del processo patologico”.