La riflessione di una caregiver che scrive al nostro giornale apre una finestra su un problema ancora troppo invisibile
«Non voglio essere sostituita», scrive una caregiver in una breve ma intensa lettera inviata a Sanità Informazione. «Ringraziando il Signore, posso fare a meno di un sostegno economico, però sento la mancanza di una visita periodica di una persona qualificata che possa rilevare eventuali cambiamenti e dare suggerimenti di come intervenire». È una testimonianza che colpisce per la sua lucidità, perché mette a fuoco una verità scomoda e spesso ignorata: il problema non è sempre economico, non è sempre la richiesta di “aiuto materiale”. È, più profondamente, la solitudine nella cura.
In queste poche righe si concentra tutta la complessità del ruolo di chi si prende cura, giorno dopo giorno, di un familiare non autosufficiente. Una scelta consapevole, affettuosa, a volte istintiva. Ma non per questo priva di limiti, fatica, rischi. La persona che scrive non chiede di essere alleggerita del proprio compito: chiede piuttosto di non essere abbandonata nel suo svolgerlo. Perché c’è qualcosa che chi è immerso nella quotidianità dell’assistenza rischia di non vedere: quei piccoli segnali, quei “microcambiamenti” che possono preannunciare un peggioramento, un bisogno nuovo, una fragilità che avanza. E senza un occhio clinico esterno, competente, professionale, questi segnali restano invisibili fino a diventare problemi.
È un bisogno che riguarda migliaia di caregiver in Italia, oggi. Secondo le stime più recenti, sono oltre otto milioni le persone che svolgono questo ruolo, spesso senza alcuna tutela formale. Solo alcune regioni italiane, a macchia di leopardo, hanno adottato normative locali di riconoscimento e supporto. A livello nazionale, invece, si attende ancora una legge quadro che possa davvero definire cosa significhi essere caregiver e cosa lo Stato intenda offrire loro in termini di diritti, servizi, protezione.
Nel frattempo, la realtà è fatta di responsabilità silenziose, di giornate senza tregua, di notti insonni. È fatta anche di stress accumulato, isolamento sociale, e, come racconta la nostra lettrice, del timore di non essere in grado di cogliere quei segnali deboli che solo una valutazione clinica esterna, regolare, potrebbe intercettare. Un’assistenza davvero integrata e umana non può ridursi a bonus o contributi una tantum: deve includere un sistema territoriale solido, capace di affiancare chi si prende cura con visite periodiche, consigli, orientamento. Servizi che non sostituiscono, ma accompagnano. Che non tolgono il compito, ma lo rendono più sostenibile e sicuro.
Oggi più che mai, anche alla luce delle proposte di legge in discussione in Parlamento, è necessario che il tema esca dall’ombra. Che si riconosca quanto sia rischioso e miope affidare buona parte della tenuta del nostro fragile sistema di welfare alla buona volontà dei caregiver familiari. Il loro contributo è prezioso, ma non può diventare una condanna alla solitudine. È ora di pensare a un modello di assistenza che li metta al centro, che li ascolti, che offra strumenti concreti — anche solo una visita, una parola, un confronto — per continuare a curare senza sentirsi abbandonati.
La testimonianza arrivata in redazione non è solo un grido d’aiuto personale. È la voce di tanti. È il riflesso di una società che ancora non sa prendersi cura di chi cura. E che, per questo, rischia di perdere entrambi.