Salute 27 Novembre 2025 16:34

Ipertensione e malattia renale cronica, denervazione renale nella pratica clinica per pazienti fragili

La Società Italiana di Nefrologia pubblica un Position Paper che amplia l’uso della denervazione renale ai pazienti con malattia renale cronica

di Isabella Faggiano
Ipertensione e malattia renale cronica, denervazione renale nella pratica clinica per pazienti fragili

Per chi convive con ipertensione difficile da trattare e malattia renale cronica, le opzioni terapeutiche diventano spesso poche, complicate, faticose. Oggi, però, si apre una strada in più: la denervazione renale (RDN) entra ufficialmente tra le possibilità offerte anche ai pazienti nefropatici. A confermarlo è il nuovo Position Paper della Società Italiana di Nefrologia, pubblicato sul Journal of Nephrology, che considera la procedura adatta anche per una popolazione fragile, ad alto rischio cardiovascolare e finora quasi esclusa dai trattamenti non farmacologici. Una decisione che arriva in un momento delicato: l’ipertensione resta il principale acceleratore della progressione della malattia renale e uno dei fattori clinici più difficili da controllare quando i farmaci non bastano o non sono ben tollerati.

Un tassello in più, accanto a farmaci e stili di vita

Il documento della SIN si inserisce nel percorso già avviato dalle Linee Guida europee, che riconoscono la denervazione renale come “terzo pilastro terapeutico” dell’ipertensione, da affiancare a farmaci e modifiche dello stile di vita. Il valore della procedura sta nella capacità di ridurre stabilmente la pressione arteriosa intervenendo sul sistema nervoso simpatico che, quando iperattivo, contribuisce all’aumento dei valori pressori. È una strategia diversa, complementare, pensata soprattutto per chi non trova beneficio o tollerabilità nei trattamenti tradizionali. Negli ultimi anni i dati clinici hanno confermato un profilo di sicurezza robusto e una riduzione pressoria mantenuta nel tempo, portando la comunità nefrologica a considerare la RDN una risorsa concreta anche nei pazienti con funzione renale compromessa.

Non solo pressione più stabile: i benefici nei pazienti con MRC

Il Position Paper sottolinea un punto centrale: nei pazienti con malattia renale cronica, la denervazione renale non peggiora la funzione renale. Anzi, diversi studi evidenziano una diminuzione di albuminuria e proteinuria, due indici fondamentali di protezione del rene.

Il beneficio si conferma anche in tre gruppi particolarmente fragili:
• chi ha funzione renale ridotta;
• chi è in dialisi;
• chi ha ricevuto un trapianto di rene.

In tutti questi scenari, la procedura ha mostrato un controllo pressorio più stabile e una buona tollerabilità nel tempo. “Ridurre l’attività del sistema nervoso simpatico nei pazienti con malattia renale cronica è un obiettivo clinico prioritario. La denervazione renale offre oggi uno strumento concreto per intervenire quando i farmaci non bastano o non sono ben tollerati”, spiega Sandro Feriozzi, nefrologo e tra gli esperti coinvolti nel documento.

La convergenza di nefrologi e cardiologi: una nuova stagione terapeutica

L’estensione dell’indicazione nasce anche da un crescente allineamento tra società scientifiche italiane e internazionali, un movimento che guarda alla denervazione renale come a un’opzione matura, basata su evidenze solide e applicabile in contesti clinici reali. In un Paese dove l’ipertensione resta una delle principali condizioni croniche e la malattia renale avanza spesso in silenzio, una procedura capace di alleggerire il carico terapeutico e migliorare la protezione cardiovascolare rappresenta molto più di un aggiornamento tecnico: è un’evoluzione della pratica clinica.

L’ipertensione renale cambia volto

L’ingresso della denervazione renale nella gestione della malattia renale cronica apre una nuova fase: più strumenti per i clinici, più possibilità per i pazienti, più prospettive per rallentare la progressione della malattia e ridurre il rischio cardiovascolare. Un passo avanti che la comunità scientifica accoglie con attenzione e che, se integrato in percorsi personalizzati e multidisciplinari, può davvero migliorare la qualità di vita di chi si trova a convivere con una delle sfide più complesse della medicina interna.

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