Salute 27 Novembre 2025 15:11

Hiv, in Europa metà delle diagnosi arriva troppo tardi. Ecdc e Oms: “Una crisi nascosta che minaccia l’obiettivo 2030”

Kluge (Oms): “Lo stigma è ancora una barriera mortale”. Rendi-Wagner (Ecdc): “Innovare il testing, portarlo nelle comunità

di Isabella Faggiano
Hiv, in Europa metà delle diagnosi arriva troppo tardi. Ecdc e Oms: “Una crisi nascosta che minaccia l’obiettivo 2030”

Mentre la Giornata mondiale contro l’Aids si avvicina, l’Ecdc e l’Oms Europa accendo i riflettori su una crisi globale che minaccia la salute pubblica, attraverso la pubblicazione di un Rapporto che non lascia spazio a interpretazioni: l’Hiv continua a circolare e continua a essere individuato troppo tardi. Nel 2024, più della metà delle diagnosi nella Regione europea dell’Oms è avvenuta con un sistema immunitario già compromesso. La conta dei CD4, parametro chiave per valutare lo stato dell’infezione, era infatti sotto la soglia delle 350 cellule/mm³ nel 54% dei pazienti. È un dato che pesa come un macigno, perché chi arriva tardi alla diagnosi è anche chi ha maggiori probabilità di sviluppare Aids, di trasmettere il virus e, purtroppo, di andare incontro a esiti più gravi. Il problema non riguarda soltanto i tempi: riguarda il numero crescente di persone che convivono con l’infezione senza saperlo. È questo il vero sommerso che gli esperti definiscono una “crisi nascosta”: una quota che continua ad aumentare nonostante l’ampliamento del testing registrato in molti Paesi negli ultimi anni.

Oltre 105mila nuove diagnosi

Nel 2024 sono state registrate 105.922 nuove diagnosi nella Regione europea dell’Oms. Complessivamente si osserva un lieve calo rispetto al 2023, ma dietro questa apparente stabilità si nasconde un mosaico estremamente frastagliato. Undici Paesi hanno segnalato un aumento delle nuove infezioni, mentre altri hanno mostrato una riduzione. La Federazione Russa, che da sola pesa in modo importante sulla curva epidemiologica regionale, ha registrato un calo del 40% delle diagnosi negli ultimi cinque anni, influenzando sensibilmente la media complessiva. Ma ciò non significa che la situazione sia sotto controllo: in molte aree dell’Est europeo la circolazione del virus rimane elevata e, anzi, presenta caratteristiche differenti rispetto al passato.

La crescita della trasmissione eterosessuale e il ruolo della mobilità

Una delle tendenze più evidenti del report riguarda la trasmissione eterosessuale, oggi sempre più rilevante: a livello regionale rappresenta il 64% delle nuove diagnosi, con una crescita costante negli ultimi dieci anni. Nell’Europa orientale ha raggiunto una quota ancora più alta, avvicinandosi all’80%. Parallelamente, quasi un terzo delle diagnosi riguarda persone nate al di fuori del Paese in cui ricevono la diagnosi, un dato che sottolinea la necessità di servizi di prevenzione più accessibili, culturalmente adeguati e realmente raggiungibili da chi, per ragioni amministrative, linguistiche o sociali, non accede ai percorsi standard del sistema sanitario.

L’Ue/See: diagnosi tardive al 48% e un equilibrio che cambia

Nei Paesi dell’Unione europea e dello Spazio economico europeo sono state notificate 24.164 diagnosi, pari a 5,3 casi ogni 100mila abitanti. Anche qui quasi una diagnosi su due è tardiva. La trasmissione tra uomini che fanno sesso con uomini resta la modalità più frequente, ma l’eterosessuale è in aumento e ormai sfiora il 46% dei casi. Un altro elemento emerge con forza: più della metà delle diagnosi nell’Ue/See riguarda migranti, spesso provenienti da Paesi dell’Africa sub-sahariana. È un dato che parla direttamente della difficoltà di intercettare popolazioni chiave con strumenti di prevenzione efficaci, accessibili e calibrati sui bisogni culturali specifici.

Test in aumento, ma non basta: il problema è chi rimane fuori

Tra il 2015 e il 2024 il volume dei test è aumentato del 62% nei Paesi che hanno fornito dati comparabili. Un avanzamento importante, ma ancora insufficiente per fermare il virus: il testing non raggiunge in modo efficace chi è più a rischio. Molti Paesi non raccolgono dati su gruppi chiave, il che impedisce di valutare se il testing stia davvero centrando gli obiettivi. In più, diversi Stati forniscono informazioni incomplete sui CD4 alla diagnosi, o non distinguono tra nuovi casi e diagnosi già note. È un deficit informativo che limita la capacità di programmare interventi mirati e tempestivi. Sebbene il numero di nuovi casi di Aids si sia dimezzato negli ultimi dieci anni e la mortalità correlata sia scesa del 47%, la situazione resta molto diversa tra Est e Ovest. In alcune aree dell’Europa orientale le diagnosi tardive superano il 60% e la tubercolosi continua a rappresentare una delle principali condizioni definenti Aids. Sul fronte della trasmissione madre–figlio si registra una stabilità preoccupante: da un decennio la Regione conta circa 500 nuovi casi all’anno, con un calo significativo solo nei Paesi dell’Est, dove i casi si sono dimezzati dal 2015 al 2024.

Oms: “Lo stigma è ancora una barriera mortale”

“Il numero di persone che convivono con l’Hiv senza saperlo è in crescita, ed è questa la crisi silenziosa che alimenta la trasmissione del virus – afferma Hans Kluge, direttore dell’Oms Europa -. Se non rimuoviamo le barriere dello stigma e della discriminazione, non sarà possibile invertire la rotta. Molte persone continuano a non cercare nemmeno un test, pur avendone bisogno”.

Ecdc: “Portare i test nelle comunità”

Per Pamela Rendi-Wagner, direttrice Ecdc, serve una svolta immediata. “Quasi metà delle diagnosi nell’Ue/See arriva troppo tardi. Dobbiamo innovare le strategie di test, ampliando gli autotest, rafforzando il ruolo delle comunità e garantendo un percorso rapido verso le cure”. È un appello chiaro a ripensare radicalmente le modalità con cui si intercetta chi non accede ai sistemi sanitari tradizionali: giovani, migranti, persone che vivono in condizioni di fragilità sociale, uomini eterosessuali che non percepiscono il rischio.
Il messaggio del report è netto: l’Europa non è fuori strada, ma non sta andando abbastanza veloce. Per avvicinarsi all’obiettivo 2030 serviranno test diffusi, servizi più inclusivi, sistemi informativi più solidi e una lotta decisa allo stigma che ancora oggi frena il percorso verso la diagnosi.

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