Dalla produzione allo smaltimento, ogni farmaco e dispositivo medico che utilizziamo ha un impatto sull’ambiente. E misurarlo è il primo passo verso una sanità più sostenibile. Da questa consapevolezza nasce un filone di ricerca in crescita a livello globale, secondo cui il settore sanitario è responsabile del 5% delle emissioni mondiali di gas serra. Ma le criticità ambientali non si fermano alle emissioni: un grave problema riguarda anche i residui farmaceutici, che attraverso le acque reflue finiscono nelle falde acquifere. Secondo uno studio pubblicato a maggio 2025 su PNAS Nexus, ogni anno circa 8.500 tonnellate di antibiotici raggiungono fiumi e corsi d’acqua, contribuendo alla diffusione di batteri multiresistenti.
“La produzione di principi attivi – spiega Eugenio Di Brino, esperto di sanità pubblica, ricercatore e docente presso ALTEMS (Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma – richiede solventi e processi ad alta intensità energetica, spesso associati a elevate emissioni di anidride carbonica”. Un discorso analogo vale per i materiali plastici e metallici utilizzati nei dispositivi, spesso monouso: siringhe, mascherine, camici, guanti e penne per insulina. Alcuni farmaci – in particolare inalatori e anestetici – comportano un impatto ambientale aggiuntivo perché vengono prodotti con l’uso di propellenti ad alto potenziale di riscaldamento globale, come gli idrofluorocarburi (HFC). E poi c’è il problema dello smaltimento: molti imballaggi farmaceutici sono realizzati in PVC e alluminio, mentre i dispositivi monouso sono classificati come rifiuti speciali, più complessi e costosi da gestire.
Un ulteriore fronte di ricerca riguarda i residui di farmaci espulsi dall’organismo che finiscono nei fiumi e nelle falde. Uno studio pubblicato nel 2022 sempre su PNAS ha analizzato 1.052 siti di campionamento in 258 fiumi di 104 Paesi, rilevando 61 principi attivi con concentrazioni superiori ai limiti di sicurezza in oltre il 25% dei siti monitorati. Tra i farmaci più frequentemente rilevati figurano la carbamazepina (antiepilettico e stabilizzatore dell’umore) e la metformina (per il diabete). Su una rete fluviale stimata in 6 milioni di chilometri, le concentrazioni di antibiotici potrebbero essere sufficienti a selezionare batteri resistenti. Le aree più contaminate si trovano in Paesi a basso e medio reddito, dove la gestione delle acque reflue è carente e la produzione farmaceutica è intensiva.
“Oggi – precisa Di Brino – la valutazione delle tecnologie sanitarie (Health Technology Assessment, HTA) è uno strumento consolidato con cui il Servizio Sanitario Nazionale decide quali farmaci o dispositivi acquistare. Tuttavia, si basa ancora solo su efficacia clinica, sicurezza ed economia. Introdurre un criterio ambientale nella valutazione potrebbe orientare gli investimenti pubblici verso soluzioni più sostenibili”.
Anche a livello europeo qualcosa si muove. A giugno, un gruppo di lavoro del Pharmaceutical Committee della Commissione Europea ha presentato un report con alcune raccomandazioni, tra cui il rafforzamento della valutazione del rischio ambientale durante l’autorizzazione all’immissione in commercio dei farmaci. “Non rappresenta ancora una posizione ufficiale condivisa da tutti gli Stati membri – conclude Di Brino – ma è pur sempre un passo avanti”.