Pronta per l’approvazione in Conferenza Unificata la nuova versione del Piano di Azione Nazionale per la Salute Mentale che punta a superare disuguaglianze territoriali e frammentazione dei percorsi di cura.
Nel 2025 il Ministero della Salute ha elaborato il Piano di Azione Nazionale per la Salute Mentale 2025–2030, frutto di un lavoro tecnico e politico che ha coinvolto regioni, professionisti, esperti e rappresentanti del mondo dell’utenza. Al centro c’è un cambio di paradigma: la persona con un disturbo mentale non è soltanto un paziente da curare, ma un cittadino con diritti, progetti di vita, relazioni affettive da valorizzare e sostenere.
Fin dalle prime pagine il Piano richiama i grandi obiettivi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e insiste su alcune parole chiave: equità, territorio, integrazione. L’obiettivo dichiarato è ridurre le differenze ancora profonde tra regioni, rafforzare i Dipartimenti di Salute Mentale come regia di una vera rete territoriale e mettere in comunicazione sistemi che troppo spesso lavorano in parallelo: sanità, servizi sociali, scuola, lavoro, giustizia, terzo settore.
Dentro questa cornice generale prende forma una delle novità più forti del Piano: il riconoscimento esplicito del diritto alla famiglia e ai legami affettivi come parte integrante della recovery. Questo significa, innanzitutto, affermare che la persona con un disturbo psichico ha diritto a progettare la propria vita affettiva, a mantenere e costruire relazioni, a pensare alla genitorialità e alla pianificazione di una gravidanza, ricevendo informazioni corrette e supporto, non giudizi o barriere silenziose.
Il Piano mette in chiaro che molti dei percorsi assistenziali attuali non sono ancora tarati su questa prospettiva. Basta pensare ai rientri a casa dopo un ricovero o un periodo in comunità: momenti delicatissimi in cui il sistema si concentra sulla stabilizzazione clinica, ma raramente offre strumenti di mediazione familiare, sostegno ai caregiver, spazio per affrontare conflitti e paure. Allo stesso modo, i servizi spesso non hanno percorsi strutturati per accompagnare chi vuole avere figli, affrontando insieme aspetti clinici, terapeutici, sociali e legali.
La questione della residenzialità psichiatrica è un altro punto dolente che il Piano prova ad affrontare. La deistituzionalizzazione italiana, avviata con la legge Basaglia, è storicamente un unicum, ma negli anni si sono create nuove forme di istituzionalizzazione meno visibili: comunità residenziali in cui si resta per anni senza un vero progetto di uscita, soluzioni abitative che allontanano dai contesti di vita ordinari. Il Piano 2025–2030 chiede di differenziare meglio i servizi residenziali per intensità di cura e di puntare su abitare supportato e soluzioni di housing sociale che permettano alle persone di vivere in contesti “normali”, con il giusto livello di sostegno.
Questo ha implicazioni dirette sul diritto alla famiglia: una residenzialità “a tempo indeterminato” può significare, di fatto, un’interruzione di legami affettivi e di ruoli genitoriali. Al contrario, servizi che lavorano in ottica di progetto di vita possono costruire percorsi di rientro graduale, sostenere le relazioni significative, prevenire rotture traumatiche.
La sfida, però, è tutta nell’attuazione. Le associazioni di utenti e familiari, insieme a molte realtà professionali, hanno salutato positivamente l’impianto valoriale del Piano, ma hanno ricordato che senza risorse, standard vincolanti e indicatori chiari il rischio è che tutto resti sulla carta. Tra le richieste più frequenti ci sono l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza in salute mentale, criteri omogenei su tempi di accesso e continuità assistenziale, una maggiore disponibilità di psicoterapia e percorsi riabilitativi, spesso ancora considerati “extra” rispetto al nucleo duro della cura farmacologica.
C’è poi il tema della partecipazione. Le organizzazioni chiedono che, a livello regionale, l’attuazione del Piano preveda la presenza stabile di associazioni di utenti e familiari nei tavoli di programmazione, non solo come uditori ma come co-protagonisti nella definizione dei nuovi servizi, nella valutazione della qualità, nella stesura dei percorsi diagnostico-terapeutici.
Il riferimento temporale è chiaro: il 2025 è l’anno di nascita del Piano, ma il giudizio su questo documento arriverà solo strada facendo, da qui al 2030. Molto dipenderà dalla capacità delle Regioni di tradurlo in atti concreti e dal ruolo di stimolo che sapranno esercitare professionisti, associazioni e cittadini. Se il diritto alla famiglia e alla vita affettiva diventerà davvero una lente con cui ripensare i servizi, la salute mentale italiana potrebbe fare un salto di qualità, spostandosi dal paradigma del “controllo del sintomo” a quello del progetto di vita.