Dalla diagnosi alla terapia: la medicina di precisione entra nella quotidianità clinica, cambiando la cura e la vita di migliaia di donne. Il punto con gli esperti del policlinico Gemelli di Roma
C’è una trasformazione che non fa rumore, ma che sta ridisegnando in profondità il percorso di cura di migliaia di donne con tumore al seno. È la rivoluzione dei test genomici, strumenti che consentono alla medicina di precisione di uscire dai laboratori di ricerca e diventare parte integrante della pratica clinica. Per le pazienti con tumore al seno ormono-responsivo – oltre il 70% dei casi complessivi – questi esami stanno segnando la differenza tra dover affrontare una chemioterapia o poterne fare a meno in totale sicurezza. Il cambiamento è concreto: grazie a tecnologie come il test Oncotype Dx, oggi è possibile individuare chi trarrà reale beneficio dalla chemio e chi invece potrà essere trattata con la sola ormonoterapia, evitando tossicità inutili e migliorando sensibilmente la qualità di vita. Una vera svolta, al centro del convegno promosso dal professor Gianluca Franceschini e dalla dottoressa Alessandra Fabi al Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS.
Quando la genetica entra nel percorso terapeutico
Ogni anno in Italia vengono diagnosticati circa 56mila nuovi casi di carcinoma mammario. Di questi, il 65-75% è rappresentato da tumori “ormono-responsivi”, cioè caratterizzati dalla presenza di recettori per gli estrogeni sulle cellule tumorali. È in questo ampio gruppo che i test genomici si sono dimostrati particolarmente utili per orientare le scelte terapeutiche dopo la chirurgia. Ma come funzionano concretamente? La dottoressa Alessandra Fabi, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Responsabile della Medicina di Precisione in Senologia al Gemelli, lo spiega con chiarezza: “Nelle pazienti che mostrano una forma aggressiva di tumore, il trattamento più idoneo, dopo l’intervento chirurgico è la chemioterapia. Al contrario, in quelle con le forme a bassa aggressività si può procedere solo con l’ormonoterapia. Tra queste due categorie di pazienti, ce n’è una terza, che può avvantaggiarsi del test Oncotype. Si tratta di donne con un tumore invasivo in stadio precoce (stadio I, II o IIIa), ormono-sensibile ed HER2 negativo, senza coinvolgimento dei linfonodi o al massimo con fino a tre linfonodi interessati (in caso di donne in menopausa). In queste donne, il test genomico aiuta il medico a valutare il rischio di recidiva e a guidare la scelta terapeutica tra la semplice ormono-terapia o la chemioterapia seguita dall’ormono-terapia”. Il test Oncotype Dx viene effettuato su un campione di tessuto prelevato durante l’intervento e analizza l’espressione di 21 geni, capaci di restituire un quadro preciso dell’aggressività del tumore.
Chemioterapia solo quando serve: i dati che cambiano la pratica clinica
Gli effetti dell’introduzione del test sono già misurabili. “L’applicazione di questo test ha consentito di ridurre del 48% il ricorso alla chemioterapia in questo gruppo di pazienti (cioè di risparmiarla a circa 6.000 pazienti l’anno) – prosegue la professoressa Fabi -. Si tratta di due pazienti su tre in postmenopausa con neoplasia della mammella operata e di uno su tre tra quelle in pre-menopausa. Poter evitare la chemioterapia significa ridurre la tossicità dei trattamenti, migliorare la qualità di vita delle pazienti, senza pregiudicare la loro efficacia, ma anche ridurre costi diretti e indiretti del Servizio Sanitario Nazionale. Abbiamo calcolato che il test andrebbe offerto ogni anno a circa 13 mila pazienti che rispondono alle caratteristiche di eleggibilità”. Una riduzione quasi del 50% nel ricorso alla chemio non è soltanto un beneficio clinico: è un cambiamento culturale, un modo completamente nuovo di leggere la malattia e personalizzare la terapia.
Un fondo nazionale e un’Italia a più velocità
Nel 2020 il Governo ha istituito un fondo da 20 milioni di euro per garantire l’accesso ai test genomici a circa 10mila pazienti all’anno. L’adozione, tuttavia, è stata disomogenea: alcune Regioni come Lazio, Lombardia e Campania hanno integrato stabilmente il test nella pratica clinica, mentre in altre l’utilizzo è rimasto limitato. Una disuguaglianza che rischia di tradursi in differenze di trattamento tra le varie aree del Paese.
Il professor Gianluca Franceschini, Ordinario di Chirurgia Generale all’Università Cattolica e Direttore della UOC di Chirurgia Senologica al Gemelli, sottolinea la necessità di rendere equo l’accesso su tutto il territorio nazionale: “Il nostro augurio è che Oncotype Dx possa essere inserito presto nei LEA per garantirne l’utilizzo anche in futuro in tutto il territorio nazionale. Sono inoltre in corso studi osservazionali per meglio definire in sottogruppi di popolazione, come per esempio le pazienti giovani, il miglior trattamento anti-ormonale dopo il test, oppure per valutare l’impiego di Oncotype Dx in fase pre-operatoria; da questi studi, che si stanno definendo nel loro disegno e che ne vede alcuni già attivi anche nell’ambito del gruppo GIM (Gruppo Italiano Mammella), ci aspettiamo di ricevere ulteriori indicazioni. Potrebbe derivarne ad esempio l’indicazione che, in alcune pazienti, sarà possibile risparmiare anche la chemioterapia neoadiuvante (cioè prima dell’intervento chirurgico) perché sarebbe sufficiente sottoporle ad ormonoterapia con farmaci di ultima generazione, prima dell’intervento”. Se confermata, questa prospettiva aprirebbe la strada a un ulteriore passo avanti: evitare la chemioterapia non solo dopo l’intervento, ma persino prima della chirurgia.
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