La guerra, il trauma individuale e le ferite che si trasmettono tra generazioni sono alcuni dei temi al centro del 50° Congresso della Società Italiana di Psichiatria (SIP), in corso a Bari
Sette persone su dieci vivono, nel corso della vita, un evento traumatico, con rischio di disturbo post-traumatico da stress del 14% (PTSD). Le persone più a rischio sono le vittime di conflitti, violenze, catastrofi naturali, lutti, ecc. Il tema è stato affrontato di recente Congresso Mondiale di Psichiatria, che si è svolto a Praga, con particolare riferimento all’Ucraina. Una presentazione dettagliata delle conseguenze sulla popolazione e, soprattutto, sui bambini è stata svolta dalla psichiatra Oksana Lyzak, assistente professore all’0Università Medica Nazionale di Leopoli Danylo Halytsky, che si è collegata dal suo paese in diretta al 50° congresso nazionale della Società Italiana di Psichiatria, in corso a Bari.
Necessario un impegno etico globale
“Le immagini e i dati che arrivano dall’Ucraina non raccontano solo la distruzione delle città, ma anche le lacerazioni silenziose delle menti”, spiega Liliana Dell’Osso, presidente SIP, professore ordinario di psichiatria all’Università di Pisa. “Garantire standard internazionali di cura, formazione e tutela significa restituire dignità e futuro a chi sopravvive al trauma. Non si tratta soltanto di assistenza clinica, ma di un impegno etico globale: costruire una psichiatria capace di accogliere e curare le ferite invisibili della guerra e della violenza”, aggiunge. “Questo – sottolinea Emi Bondi, presidente uscente SIP e direttore del DSM dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo – è un impegno che riguarda tutta la psichiatria europea”.
Trauma psicologico anche per bambini che vedono da lontano il conflitto
“Di particolare rilevanza nel report sull’Ucraina – spiega Massimo Clerici, vicepresidente SIP e professore ordinario di psichiatria all’Università Bicocca di Milano – l’indicazione che non solo i traumi diretti, come ferite, fuga e trasferimenti forzati, rappresentano un trauma psicologico di particolare rilevanza, ma anche quanto viene riferito alla popolazione dai media: ciò rappresenta un trauma in grado di suscitare indirettamente angosce e tutta la costellazione dei sintomi dissociativi e somatici caratteristici di coloro che hanno vissuto, appunto, un trauma. Dunque, i bambini e gli adolescenti, anche italiani, esposti agli eventi di violenza e a diversi livelli, ne sono la testimonianza. Il fenomeno, ancora poco noto, della ‘vittimizzazione’ si riferisce appunto alla possibilità di diventare perpetratore di violenza dopo aver subito i traumi legati alla violenza”.
La comunicazione come strumento terapeutico
Su questo tema l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha elaborato sei punti per la prevenzione e l’intervento, sperimentati nei contesti più difficili. “Si parte da una guida chiara e coerente delle istituzioni – spiega Clerici – per poi definire una filosofia comune della cura che preceda la pratica e ne fondi i principi etici. Il terzo elemento riguarda la necessità di integrare e non isolare, unendo sanità, scuola, servizi sociali e comunità”. Centrale è anche la comunicazione, intesa però come strumento terapeutico. “Infine – conclude il prof. Clerici – la costruzione di reti operative tra professionisti e la loro istituzionalizzazione, per garantire continuità e stabilità agli interventi, trasformando le buone pratiche nate nell’emergenza in politiche permanenti”.
Le patologie post-traumatiche si trasmettono epigeneticamente
Anche i dati sulla situazione africana sono drammatici. Il rapporto tra psichiatri che devono garantire la salute mentale e, soprattutto, le risposte specialistiche in condizioni di guerra, catastrofi umanitarie e carestie, è di uno per 1.500.000 persone. Senza contare i drammi di altre zone del mondo come testimoniato dallo psichiatra inglese Anis Ahmed, originario del Bangladesh. “Questi dati non prevedono miglioramenti a breve – aggiunge Giulio Corrivetti, vicepresidente SIP e direttore dell’Unità Operativa di Salute Mentale Ds 68, DSM della Asl Salerno – anche per le difficoltà di finanziamento della salute mentale in questi Paesi dove, nelle attuali condizioni, sono garantiti al minimo solo i servizi medici per il contrasto alle malattie infettive. Drammi che dimostrano quanto la violenza si correli direttamente al trauma, generi patologie post-traumatiche e possa essere trasmessa epigeneticamente a livello intergenerazionale e transgenerazionale”.
I trauma è una memoria viva, biologica e culturale
“Oggi sappiamo che l’impatto del trauma non si esaurisce quando tacciono le sirene o si varca un confine” sottolinea Dell’Osso. “Le sue tracce si imprimono nella mente e nel corpo e, con il tempo, possono riaffiorare, con gli stessi segni e sintomi di vulnerabilità di chi ha vissuto la violenza, nelle generazioni successive, pur cresciute in contesti sicuri. Il trauma, dunque, non è soltanto un ricordo, ma una memoria viva, biologica e culturale: riconoscerla, prevenirla e curarla precocemente è una responsabilità collettiva che riguarda la salute mentale di tutti”. “Per questo – conclude Bondi – la SIP chiede da tempo percorsi specifici e approcci integrati nei DSM territoriali italiani che si trovano a fronteggiare migranti e altre categorie di soggetti che hanno subito gravi violenze”.
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