Diritto 12 Maggio 2015 19:01

«Dottore, ascoltami due minuti e io non ti denuncio»

Intervista al Professor Gilberto Corbellini: «La comunicazione medico-paziente riduce insoddisfazione, esami inutili e le querele calano del 30%».

«Dottore, ascoltami due minuti e io non ti denuncio»

La comunicazione tra medico e paziente è diventata importante da quando si è iniziato a studiarla empiricamente, alla fine degli anni Novanta negli Stati Uniti, tramite ricerche sulle modalità che i medici usano per comunicare con i pazienti, i tempi che dedicano alla consulenza e alla misurazione dei risultati e del soddisfacimento che ne derivano.

Da queste indagini è emerso che una comunicazione efficace riduce l’insoddisfazione del paziente, indipendentemente dall’esito diagnostico e terapeutico. In particolare è emerso che se il medico dedica al paziente meno di 13 minuti per la visita medica quel paziente sarà insoddisfatto, sempre indipendentemente dall’esito della visita o della terapia. Se invece il medico dedica più di 18 minuti il grado di soddisfacimento aumenta molto. Inoltre è emerso che l’atteggiamento del medico – dal fare battute, all’interessarsi alle questioni personali e alla vita del paziente – incrementa ulteriormente la soddisfazione del malato».

Ci illustra questa realtà il professor Gilberto Corbellini, ordinario di Bioetica e Storia della Medicina all’Università La Sapienza di Roma, che ci ospita al Museo della Storia della Medicina del grande ateneo romano. Il professore ha condotto nei giorni scorsi al Festival della Scienza Medica, tenutosi a Bologna, un interessante incontro dal titolo “Medico e paziente, la relazione necessaria”. Ma quanto e perché è importante la comunicazione tra medico e paziente?
«Ormai si sa che un medico italiano interrompe un paziente dopo 15–30 secondi da quando ha iniziato a parlargli del suo problema. Così il medico perderà molte informazioni importanti e metterà sulla difensiva il paziente che sarà portato a fornire informazioni che, in qualche modo, confermano l’ipotesi iniziale che si era fatto il medico. Questi modelli psicologici vanno scardinati, anche attraverso la formazione medica. La medicina è in evoluzione, e i medici hanno spesso a che fare con pazienti che in realtà non hanno un problema clinico, e che quindi guarirebbero anche senza medico. Altri pazienti hanno invece disturbi legati a condizioni piuttosto complesse che richiedono la raccolta di un numero consistente di informazioni per far sì che vengono correttamente riconosciuti e trattati».

Lei citava nel suo intervento il dato secondo cui un ascolto adeguato porti anche a un calo delle denunce nei confronti dei medici e ad un risparmio per il Ssn. Con un rapporto di fiducia più stretto si ridurrebbero gli esami diagnostici superflui e le prescrizioni inappropriate?
«Questo è un punto a favore del mondo Nord Americano. Gli studi dimostrano che l’eccesso di analisi e di esami, spesso per ragioni difensive, aumenta i rischi per il paziente, oltre che i costi a carico del Ssn e dei sistemi previdenziali. Inoltre i dati ci dicono che a seconda degli ambiti si va dal 18% al 30% di riduzione dell’insoddisfazione, di riduzione delle denunce a carico dei medici, e di riduzione dei costi se si fa una buona ed efficace comunicazione e raccolta dei dati, e se si implementa quell’interazione fondamentale nel rapporto medico paziente, ossia la fiducia».

I medici italiani come sono formati su quest’ambito? E se non lo sono abbastanza, cosa dovrebbe prevedere un’adeguata formazione in merito?
«Anche i medici italiani dovranno iniziare a formarsi in questo senso, perché c’è ancora la tendenza a pensare che un atteggiamento paternalistico di tipo tradizionale sia indicato nella relazione medico paziente. Non basta improvvisare. Ci sono elementi di buon senso: l’empatia, il saper dire certe cose, ed evitarne delle altre, non rispondere al cellulare durante la visita, non mettersi al computer, non essere interrotti. Ma non basta, la consulenza medica ha dei tempi ben scanditi. Oggi un medico non viene assunto in un ospedale nordamericano se non ha fatto un corso di comunicazione, e ciò vuol dire anche mettersi nei panni del paziente che ha davanti, tenendo anche presente che ogni paziente è diverso dall’altro».

Questa disciplina che viene definita “medicina narrativa” rischia però di varcare quel confine sottile che separa ciò che ha fondamento scientifico da ciò che non lo ha…
«Infatti è proprio questo il punto. Purtroppo questi temi sono pian piano diventati appannaggio di chi si approfitta del bisogno che ha spesso la gente, di essere semplicemente ascoltata. In Italia hanno sottovalutato l’idea di formare e costruire una figura di professionista in grado efficacemente di difendere le basi e la qualità scientifica della medicina. Non si può generalizzare l’esperienza singolare del rapporto tra medico e paziente, e l’universo dei problemi che in questo si possono incontrare».

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