Lavoro 25 Marzo 2020 18:23

Coronavirus, lo psicologo: «L’incubo peggiore di chi lavora in ospedale è contagiare i propri cari»

Piero Gaspa cura il progetto di sostegno psicologico per il personale sanitario in prima linea nell’emergenza al San Giovanni Addolorata di Roma: «Non c’è stato sentore di una crisi, ma serve a prevenire e ovviare al sovraccarico emotivo. Medici e professionisti sanitari soffrono un accumulo di tensione, lavoriamo per evitare che diventi patologico»

Coronavirus, lo psicologo: «L’incubo peggiore di chi lavora in ospedale è contagiare i propri cari»

L’istinto di un padre e di una madre è proteggere i figli, quello di un figlio adulto proteggere i genitori anziani, proprio come quella mamma e quel papà hanno fatto, un tempo, con lui. Deve essere per questo che i medici e gli infermieri impegnati nella battaglia contro il coronavirus hanno il terrore più di contagiare che di essere contagiati.

È questo ciò che emerge dagli incontri tra il personale sanitario e il dottor Piero Gaspa, psicologo ospedaliero del San Giovanni Addolorata di Roma specializzato in psicologia d’emergenza. I colloqui fanno parte del programma di supporto psicologico voluto dall’azienda romana all’indomani dello scoppio dell’emergenza da coronavirus. Vediamo di cosa si tratta.

Dottor Gaspa, a chi è aperto il programma di supporto psicologico dell’ospedale San Giovanni Addolorata di Roma?

«Il progetto è iniziato il 13 marzo 2020, in piena emergenza coronavirus, e si svolge tutti i giorni all’inizio o alla fine dei turni lavorativi perché deve far parte della routine lavorativa. È riservato all’area dell’emergenza-urgenza: comporta il coinvolgimento dei reparti di pronto soccorso generale, pronto soccorso ostetrico ginecologico, l’area della radiologia d’urgenza contigua con il pronto soccorso, la medicina di urgenza, la breve osservazione – dove attualmente stazionano in una condizione di confinamento tutti i pazienti con sintomatologie specifiche tra cui il Covid-19 – e poi la terapia intensiva post-operatoria e le rianimazioni. È un programma collettivo aperto a tutti: medici, infermieri, radiologi tecnici, personale OSA. Ovviamente, rispettiamo i criteri di sicurezza e sono provvisti di dispositivi di protezione individuale».

Come è strutturato il programma?

«Io utilizzo sempre strumenti scientificamente validati; in questo caso ho applicato una tecnica che viene dalla psicologia dell’emergenza.  Si chiama Defusing, è una tecnica immediata e di facile applicazione: dai 30 ai 45 minuti di colloquio sull’evento specifico – in questo caso quindi la gestione del paziente positivo al coronavirus o potenzialmente positivo – e dal punto di vista clinico, lavorativo ed emotivo. Indaga gli effetti personali, il vissuto del dipendente rispetto al suo operare quotidiano».

LEGGI ANCHE: CORONAVIRUS, LO PSICOLOGO: «PERSONALE SANITARIO SVILUPPERÀ DISTURBI POST TRAUMATICI. ATTIVARE SUBITO SUPPORTO PSICOLOGICO»

Quali sono le difficoltà maggiori che lamentano i medici e gli operatori sanitari in questo periodo?

«Bisogna distinguere quelle oggettive, relative alla situazione in sé e per sé, alle procedure da seguire e alla sicurezza dei dispositivi di protezione individuale, da quelle soggettive. Fino a qualche giorno fa, c’era una carenza notevole di dispositivi, ora la situazione è migliorata. C’è stata una fornitura notevole, ma i tecnici che lavorano nella zona più critica, ossia dove stazionano in confinamento i pazienti ricoverati acclarati per Covid-19, chiedono l’equipaggiamento specifico per la gestione pratica del paziente».

E le preoccupazioni soggettive?

«La madre di tutte le paure non è legata tanto all’operare lavorativo o alla propria incolumità, cioè di contrarre l’infezione, perché il personale sanitario è abituato a questa eventualità. In questo momento la paura peggiore è essere veicolo di infezioni per i propri cari, per gli anziani, come i genitori e soprattutto per i figli. Quando il medico torna a casa avrebbe voglia di quegli atti tipici della routine: l’abbraccio con i figli o la carezza con i genitori, e ora c’è quel brivido che blocca la spontaneità. Questa paura, nella quotidianità, è uno dei fattori più incidenti».

Dalle sedute di gruppo emergono situazioni di panico?

«No, anzi, ci tengo a dire che il supporto psicologico non nasce perché c’è stato sentore di una crisi ma per prevenire e ovviare al sovraccarico emotivo. Chiaramente c’è un accumulo di tensione e lavoriamo per evitare che diventi patologico e si manifesti in forme che potremmo chiamare fobie specifiche o sindrome di Burnout».

Quali sono le indicazioni che lei fornisce a chi è in prima linea?

«Il consiglio è quello che vale per tutte le sindromi di ansia: riportare una condizione psichica di controllo e limitare la propria preoccupazione alle cose su cui posso direttamente agire, cioè limitarsi ad operare sia in termini fisici che di pensiero su quello che mi circonda e sulle cose sulle quali posso direttamente agire, perché poi si innesca un meccanismo di fatalismo o di perdita di controllo».

Secondo lei, gli operatori sanitari da dove prendono la forza, in questo momento?

«Ecco, un elemento importantissimo per i medici e gli infermieri è il rispetto e la considerazione delle persone. Un riscontro positivo dalla gente che prima non c’era, visto il preoccupante fenomeno delle aggressioni. Speriamo che duri e non dipenda solo dal fatto che gli accessi al pronto soccorso sono diminuiti».

LEGGI ANCHE: STORIE AL LIMITE, TIMORI E PARADOSSI: LA VITA DEGLI INFERMIERI NELL’EMERGENZA CORONAVIRUS

Al oggi, nel Lazio, l’allarme coronavirus è serio ma sembra essere contenuto: se la situazione a Roma dovesse precipitare, secondo lei, i medici sarebbero pronti e quali conseguenze potrebbero pagare nei prossimi mesi?

«Il personale è sicuramente capace di resistere a questo tipo di impatto. Abbiamo avuto tutto il tempo per operare una sorta di incubazione e quindi comprendiamo la ratio, l’origine e abbiamo attivato delle strategie. Sicuramente ci sarebbe un accumulo di tensione con una sintomatologia legata più a un distress che non a un trauma specifico. Questo non vuol dire che non possa dare effetti. Noi cerchiamo, con questa metodologia, di consentire alle persone di esprimere le emozioni che hanno, sentirsi appoggiati dall’azienda e condividerle con gli altri. Medici e infermieri esprimono quelle che sono le loro difficoltà; nel momento in cui lo fa una persona, l’altra ci si riconosce e quindi pensa di essere uguale. La cosa peggiore che provoca la non espressione di un disagio è che la persona possa sentirsi incapace, debole o diversa o tutte e tre le cose. E questo genera una ipofunzionalità nelle attività lavorative fino ad arrivare ad un evitamento, la cosiddetta sindrome di Burnout. Condividere è importantissimo e fa bene a tutti».

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